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L’esperienza di p. Benoit in Papuasia ci aiuta a riflettere:

certo modo di “evangelizzare” è una buona novella? Il vangelo si “impone” con la dottrina o si “propone” con le opere?

A 65 anni sono andato in pensione, partendo per la Nuova Guinea. Mi ero stancato di essere un testimone qualunque. Volevo vivere, da qualche parte, il cuore dell’evangelo: condividere la vita dei criminali più pericolosi.

Avevo letto che costoro vivono su quest’isola. Per sopravvivere a Port Moresby, la capitale, gli abitanti sono condannati a nascondersi sotto terra in bunker circondati da filo spinato, foto-camere, cani feroci, guardie privati. Al calar della notte le strade sono deserte. Nelle campagne è ancor peggio.

Avevo già frequentato dei delinquenti. Malgrado la violenza, che cova nel loro inconscio, non sono che dei falliti per una ragione evidente: soffrono di non essere accettati, amati. Quelli della Papuasia erano di un’altra specie? Per quale motivo godevano del privilegio di essere i peggiori?

Arrivato sul posto, scelgo la baraccopoli nella quale piantare la mia baracca. Gli abitanti, delle faccie patibolari, non mi permettono di piantare un chiodo. Ci tengono a costruire il mio alloggio, accogliendomi come un fratello.

Non immaginavo di trovare sull’isola anche i miei confratelli cappuccini. Grazie a Dio!, perché dopo tre settimane il più terribile delinquente della Papuasia,  un piccolissimo insetto, mi ha messo fuori combattimento. I confratelli mi hanno guarito dalla malaria, ma mi hanno inoculato un altro virus: il loro modo di fare missione è una vera buona novella? Prima di rientare in Francia, mi invitano a riposare nel centro dell’isola, dove è iniziata la loro storia.

Gli aborigeni, dopo 35.000 anni, durante l’ultima epoca glaciale, sono rimasti isolati dal resto del mondo a causa dell’innalzamento degli oceani. Si è scoperto la loro esistenza solo nel 1954. Un milione di persone ignorate, sperdute in un universo caotico. Una cuccagna per gli antropologhi. Ma si può immaginare il trauma, che i nativi hanno subito quando, nel loro tram-tram millenario, hanno scoperto degli extra-terrestri, che scendevano dal cielo con degli oggetti volanti?

I cappuccini americani lavorano con le tribù rimaste confinate per 12.000 anni. 45 anni dopo io ammiro le loro realizzazioni. Aeroporto, chiese e abitazioni per i religiosi/e, pensionati, scuole, ambulatori, officine, giardini impeccabili. Un dinamismo incredibile nel segno di una sconfinata generosità. Anno dopo anno estendono la loro influenza nei luoghi più impervi. Un confratello mi invita ad accompagnarlo dove gli indigeni hanno incontrato i bianchi appena 5/10 anni fa. Sostiamo in un villaggio dotato di una bella capella e concelebro la messa per i bambini. Più di un centinaio, irrigiditi in un silenzio assordante, sotto gli occhi e la bacchetta persuasiva degli assistenti. Solo i canti a squarciagola consentono uno sfogo tanto salutare quanto incontrollabile. Mi sento a disagio. Cosa vogliono dire, per loro, questi riti stranieri? Il sacrificio di Cristo deve essere un pedaggio? Sentimenti di disgusto e di rivolta prendono in me il sopravvento. Imporre la caricatura del “convivio divino” a dei ragazzini immersi da millenni in un contesto agli antipodi dei nostri valori e mentalità? Quali risultati spirituali ci si attendono da questa pedagogia? E tuttavia i missionari sono animati da fede profonda, generosità estrema. Ma, nel loro entusiasmo, troppo consapevoli d’insegnare la Verità, non disprezzano forse le credenze di questi “pagani” senza avvedersi che anch’essi possiedono una grande esperienza? Non si sarebbe dovuto conoscerla ed esplorarla prima d’ogni apostolato? Mi vergogno di me stesso. Dopo la predica butto là i paramenti, diserto la cerimonia, mi addentro nella giungla. La mia anima cerca ossigeno.

All’improvviso, da un cespuglio, emerge un aborigeno. Nudo.

Quanti bianchi avrà incontrato? Si ferma, mi osserva, scoppia in una risata. Si tira la barba, sfrega le gengive, mi punta il dito, gridando: “Bra, bra, bra...”. Avanza, mi prende per la barba, mette il dito nella mia bocca sdentata, ridendo ed esclamando sempre “Bra, bra, bra...”. Si guarda attorno. Nessun testimone. Sparisce nella giungla saltellando.“Bra”, per lui significa fratello/brother!?

Quest’uomo m’ha guardato per due secondi e gli è bastato. Non ha alcun dubbio: questo bianco, questo straniero è il suo doppione, il suo riflesso, il suo specchio. Io sono il suo fratello, suo gemello, suo uguale!

Il contrasto tra una celebrazione abitudinaria e questo incontro provoca in me uno shok terribile. Che paradosso! Il missionario si abbandona ad una rappresentazione devota davanti a dei ragazzini, che una bacchetta rende prudenti; un “pagano”, un selvaggio manifesta la sua sorpresa gioiosa nell’atto di scoprire un fratello. Quale dei due vive spontaneamente lo spirito del vangelo?

E’ tutta la concezione della missione della chiesa che mi esplode nell’anima. Affiora dal mio intimo un malessere profondo, che mi rode da quando studiavo in seminario: come vivere “alla pari” da fratelli?

Il selvaggio da la sua risposta: guardare il proprio fratello/sorella come in uno specchio, come un altro se stesso. Questa evidenza è una banalità per chi familiarizza con i testi evangelici. Non dice il Cristo:  “Ama il prossimo tuo come te stesso”? Scegliendo di entrare nella pelle dell’umanità, il Figlio dell’Uomo non ha usato altro metodo se non quello di “guardare il proprio fratello o sorella come un altro se stesso”? Questa è una priorità concreta nel comportamento dei cristiani? Non si ha la tendenza di farsi guardare dagli altri come il loro modello, di imporre i nostri modi di vivere e di pensare? E anche di vestire, consumare, divertirsi, inquinare? Cerchiamo d’insegnare la Verità a chiacchiere o di comunicare, testimoniandola con le opere, una autentica buona novella?