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“Prima dell’arrivo degli occidentali, i delinquenti non esistevano”.

(P. Benoit, ospite di una missione in Papua Nuova Guinea, prosegue nelle sue riflessioni su un certo modo di “evangelizzare”)

Fin dall’arrivo in Papua Nuova Guinea, nella mia totale ignoranza di questo popolo, della sua storia, cultura, tradizioni, credenze, lingue, miti, leggende, cerco dei libri che mi possano aiutare. Nel convento trovo solo i racconti dei missionari, scritti ad uso e consumo dei buoni cristiani amanti dell’esotismo e potenziali benefattori: quello che conta, prima di tutto, è spiegare a che cosa servono le loro preghiere e donazioni. Ma gli etnologi, emancipati dai condizionamenti clericali, senza dubbio avranno scritto opere più oggettive e meglio documentate. I loro studi devono pur esserci da qualche parte nel seminario. Un bel giorno, dunque, mi avventuro tra gli scaffali in cerca della sezione “etnologia”. Tra migliaia di volumi trovo collezioni su tutte le questioni religiose, trattati di storia, le battaglie europee, testi occidentali di economia, sociologia, politica, letteratura, le opere di Victor Hugo, di Churchill, di de Gaulle… Ma dove sono gli scaffali di etnologia, antropologia, storia della Papuasia? Frugo, cerco, sfoglio. Nulla. Facendo finta di niente interrogo il seminarista responsabile. Mi squadra con aria stupita: “La storia della Papuasia? Ma non ha storia! Sappiamo troppo bene, che gli etnologi inventano tante sciocchezze. Noi conosciamo il nostro popolo, non abbiamo bisogno di libercoli”.


Sorpreso, cerco di scoprire in che modo i miei confratelli americani si imbevono della vita, delle culture ancestrali dei seminaristi autoctoni. Ben presto l’annuncio dell’evangelo dipenderà da loro. Un vangelo che, per essere inteso e capito, deve “inculturarsi” nell’esperienza di un popolo accumulata durante 350 millenni.


Dei giovani cappuccini papuasi sono impegnati negli studi. Li osservo affascinato. I genitori vivono nel centro dell’isola, ai margini di ogni civiltà, mentre loro si preparano agli esami di teologia. Studiano fino a notte fonda. Pregano dall’alba al tramonto. Sono edificato. Per rilassarsi sbrigano le faccende, tagliano l’erba, giocano a basket o a tennis, ogni sera preparano pasti eccellenti: hamburger e ketchup, costolette di maiale al barbecue, tartine al formaggio. La domenica, coca-cola. Assistono alle notizie del mondo sulla CNN. In breve diventeranno dei civilizzati “made in USA”… Segregati dalla loro gente, imbevuti di cultura americana!


E’ di questa « inculturazione » che parla il catechismo universale? Non siamo un pò troppo persuasi, che la civiltà occidentale è superiore alle altre culture, dispensandoci di comprenderle prima di imporre il nostro modo di pensare? E’ indispensabile strappare gli indigeni alla loro vita tradizionale? Al di là delle nostre spiegazioni cosa possono capire di uno stile di vita agli antipodi della loro? E quando chiedono il battesimo, sposano i nostri stili di vita è per vivere da cristiani convinti o per ottenere i vantaggi che questo nuovo status assicura? Domande impertinenti? Ad ogni modo non c’è da stupirsi che i papuasi, strappati brutalmente alla loro vita ancestrale, a contatto con una civiltà nata dal cristianesimo, sono diventati dei detestabili delinquenti. In conclusione: per popoli interi, troppo spesso, la buona novella è una bruttissima novella ?


Un seminarista autoctono me lo fa intuire. Non è a suo agio tra i suoi. Si sforza di familiarizzare e di mantenere una certa distanza artificiale. Una sera mi apre il cuore e ho l’impressione di sentirmi parlare.  Soffre per l’abisso tra l’ideale sognato e la realtà di oggi. Nell’intimo vive il trauma della sua gente. Questa civiltà straniera li attira irresistibilmente anche se gli fa orrore. Il totale disprezzo dei loro valori millenari li turba. Conclude: “Sei venuto a conoscere e condividere la vita dei delinquenti. Ma, prima che arrivassero gli occidentali, non esistevano. Come non c’erano bambini abbandonati e vecchi emarginati. I nostri frati fanno l’apostolato con l’entusiasmo di un bulldozer senza capire, che i loro modi di fare producono ogni giorno di più dei nuovi delinquenti. L’inurbamento crea nei miserabili dei complessi tali di invidia verso gli arricchiti, che si danno ad ogni sorta di violenza pur di avere ciò che non hanno mai potuto avere…”.


Nicola mi fornirà un esempio di questa Chiesa che, tradizionalmente, cerca di sradicare grossolanamente le culture sciamaniche o animiste, le manifestazioni di una religione primitiva, universale e spontanea che, lungo i millenni, è sempre emersa. Le giudica incompatibili con la religione cattolica, vedendo in queste forze oscure l’influenza malefica del demonio.

Il papà di Nicola è capo tribù. Da tempo desidera sposare la religione del figlio. Ma si scontra con un dilemma insormontabile: è poligamo. Per lui avere diverse donne è una necessità vitale, che condiziona la sopravvivenza della tribù. La speranza di vita è breve, le maternità ravvicinate, l’educazione dei figli impegnativa. Il mutuo aiuto di diverse donne favorisce la vita familiare per sbrigare le faccende, curare l’orto, accudire il bestiame. Una vita comunitaria difficilmente comprensibile per noi, occidentali individualisti. Inoltre si è impegnato davanti al clan di proteggere le sue spose. Dovrebbe spedirle, facendone delle paria, metterle al bando della tribù, affinché lui possa vivere da buon cristiano? Certamente la religione è interessante, perché permette a suo figlio di volare in aereo e gli assicura una vita confortevole. Ma che cos’è, si chiede, questa paura sospetta dei missionari, che danno la caccia al sesso e pretendono fare a meno delle donne? Come considerare i papuasi dei veri fratelli, imponendo loro delle costrizioni impraticabili? In che cosa questo costume si oppone radicalmente alla buona novella di Cristo? Cancellando stili di vita indispensabili per certi popoli, si può sperare di creare una fraternità universale? Disprezzando mentalità tanto diverse quanto comprensibili, le gerarchie non si rendono conto di voler convertire i “selvaggi” allo stampo occidentale?

Un giorno manifesto ad un educatore del seminario il mio stupore per uno stile di vita agli antipodi delle loro tradizioni culturali. Risponde: “Sì, i nostri seminaristi autoctoni non vivono nello spogliamento materiale delle cose. Hanno tutto quello che abbiamo noi occidentali. La loro povertà si pone su un altro piano. Sono tagliati fuori dalle loro famiglie, tradizioni, radici…”. Quando ero giovane, ci facevano lo stesso discorso. Ma, dopo il Concilio non dovremmo imparare a partecipare alla vita della gente, a “inculturarci”? Tagliar fuori i futuri preti dal loro popolo è forse il metodo migliore per capire la sua vita ed offrirgli un insegnamento rispondente ad aspirazioni e problemi concreti?