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Macondo a Bassano del Grappa.

Sono uno che osserva molto.

    

“Fuori dai recinti del giusto e dell’ingiusto, c’è un campo: lì io ti incontrerò”

Questo motto proposto da Macondo, associazione per l’incontro e comunicazione tra i popoli, ai partecipanti alla festa di questo anno, è uno spunto di  riflessione, una voce che indica uno stato d’animo, di insofferenza, di rifiuto. Per comprendere questa pulsione dell’animo, bisogna rendersi conto dei nostri propri recinti e quelli dei nostri consimili. La storia dell’umanità è memore dei più svariati recinti, dai ghetti degli ebrei, alle riserve indiane, dai campi di concentramento, alle isole per i deportati. In questi recinti gli uomini hanno rinchiuso e ucciso altri uomini pur di distinguere il concetto di ciò che è nobile e giusto da ciò che non lo è. Il recinto ha segnato la vita dell’uomo dai tempi più lontani fino ai nostri giorni; oggi vediamo il recinto degli zingari, quello degli sbarcati o dei  rifugiati, il recinto delle diversi confessioni religiosi che ognuna ritiene di possedere la chiave della salvezza e tanti altri che sarebbe interminabile citare. Tuttavia, c’è un  filo spinato che circonda l’uomo di oggi chiuso nell’abitacolo dei suoi pensieri, poiché incapace di proporre a se medesimo una forma nuova di vita. Egli non possiede la forza interiore necessaria per comprendere che è possibile migliorare il suo modo di  esistere, che non c’è bisogno di entrare nei recinti del consumismo per sentirsi uomo. Le mille tentazioni che il mercato gli offre non risolvono la sua noia, la sua tristezza, anzi il suo stato d’animo peggiora, ed è colto dalla paura che genera ignoranza, solitudine, razzismo, mancanza di dialogo sincero soprattutto con sé stesso. Nei paesi del mondo industrializzato, il benessere raggiunto grazie alle lotte svolte dalle generazioni passati, non è stato un punto di partenza per entrare in una dimensione umana, come volevano i nostri antenati, ma piuttosto un punto di arrivo, un luogo di comodità dove adagiarsi e parlottare. Ma questo luogo è diventato scomodo e l’uomo moderno è terrorizzato dalla crisi che minaccia il suo benessere, ma non si domanda come è perché si arriva alla crisi, da dove viene, chi sono quelli che l’hanno provocata. Egli è deluso dalle promesse dei partiti politici e benché assista ai riti religiosi, in fondo non ci crede. Bestemmia e si lamenta, addossa la colpa ai politici, agli zingari, ai neri, ai diversi di ogni tipo, agli arabi,  in somma a  tutti quelli che secondo la sua visione  danno fastidio. Ma il farmaco che lo calma glielo fornisce la  tecnologia, che riesce a dargli un sollievo sia pure momentaneo, di poca durata. In questa civiltà della tecnica, la critica degli intellettuali prende le mosse dai fenomeni che la stessa civiltà produce, manifesta e consuma. Ma è proprio all’ interno dei nuclei umani che si forma l’analisi dei fenomeni, è li che si leva l’urlo della scontentezza, della frustrazione, della ricerca di un senso umano come forma di riscatto. Superare i nostri limiti esistenziali, vuol dire andare oltre il proprio recinto. Significa entrare in una regione della mente non conosciuta, e se non ci riusciamo perché il compito è difficile, allora bisogna pregare con maggior forza, guardare con più attenzione il nostro vissuto.  Un passo della Haggadà recita: “esci e impara”, è un chiaro invito a scuotere la nostra coscienza, e nell’accettare questo invito constatiamo che è uno slancio dello spirito che sovverte ciò che noi intendiamo per tradizione o cultura. Ora, il campo dove io ti incontrerò, dov’è? Esso non è lontano, è vicinissimo, si trova fuori dal nostro pensiero recintato.