Adieu la Christianie PDF Stampa

L’appartamento è un via-vai di persone. Accoglie tutti. Sua moglie è appena morta di cancro. Prima sorpresa: la porta è sempre aperta. Dei giovani assistono la TV, altri leggono il giornale o ascoltano la musica. Sembrano a casa loro e Larry non ha un angolo dove isolarsi.

Lavorava in banca a Sidney e l’hanno mandato qui. Uno shock. La sera, la gente per bene si trincera con i cani lupo dietro il filo spinato, le videocamere di sorveglianza, le guardie private. I furfanti si sguinzagliano in città, pronti all’azione più spericolata. Larry ha preferito mettersi dalla loro parte piuttosto che subirne le conseguenze? La sua religione? Non sfoggia convinzioni, ma è disponibile per ogni sconosciuto, al quale offre la sua intimità senza forzature. Un atteggiamento profondamente umano e, nello stesso tempo, idealista e realista. Cioè spirituale.
“Niente furti?”, chiedo. “Fino ad ora, no. Non si permettono neppure di aprire il frigo”. Osservo questi “angioletti” con la coda dell’occhio: eccoli qui i terribili delinquenti della Papuasia. Ho attraversato mezzo pianeta per incontrarli. Ed essi sono in poltrona, che chiacchierano a mezza voce come perfetti gentiluomini. I più silenziosi, i più chiusi si rosicchiano le unghie, spiando Larry. Ci vorrà del tempo prima che si aprano e lui non si preoccupa di provocare le loro confidenze. Sa bene che l’insopportabile sofferenza d’una vita senza futuro li farà esplodere. Allora scorrerà un fiume di parole, lacrime, abbracci.

La prima sera mi fanno gli onori di casa. Nel locale che funge da cucina, refettorio, biblioteca, sala giochi, dormitorio, tutti si danno da fare per preparare il pasto: fondi di magazzino, surgelati scaduti, resti del mercato, tutto fa brodo per riempire pance affamate. Poi inizia il veglione con questi teppisti dalle facce patibolari. Vengono alla luce flauti e chitarre e si mettono a cantare. Alcuni chiudono gli occhi, altri canticchiano, si dondolano, si abbracciano, si mettono a pregare. Parole incomprensibili, sospiri, grida, furore, risate. Immagino il panico che suscitano quando scorazzano in bande nei quartieri residenziali. Eppure, questi briganti mi appaiono come un Cristo in carne ed ossa. In definitiva, paragonati ai loro simili di altri continenti, mi sembrano inoffensivi. Gentili, premurosi, pieni di delicatezza. Sono in presenza di qualche rara specie, che Larry, con il suo sorriso e la sua discreta follia, ha saputo restituire alla vita?

Ospite dei missionari cappuccini americani
Per ora approfitto dell’ospitalità dei miei fratelli cappuccini, che mi hanno accolto con estrema cortesia. Gli abitanti di una baraccopoli, loro parrocchiani, mi accoglierebbero volentieri. Il superiore me lo fa capire: sarebbe meglio che restassi nella loro orbita piuttosto che in quella di Larry troppo legato ai sussidi della chiesa evangelica!
Il giorno dopo un confratello mi porta sul posto. Sorpresa! una cinquantina di abitanti mi aspetta, supplicandomi di restare da loro. Adriano mi offre il suo piccolo alloggio e nel cortile ne costruirà uno tutto per me. Preferirei sistemarmi nell’anonimato piuttosto che essere catalogato fin dall’inizio come curato, ma non riesco a rifiutare. L’indomani si mettono all’opera. Quanto a me, prete troppo sacro, non ho il diritto di toccare un chiodo, una tavola (il colmo per un discepolo di Cristo!). Dei bambini, tutti nudi, portano uno strumento musicale e cantiamo tutti insieme.

Mi sento a mio agio in questo angoletto di paradiso terrestre con la sua vegetazione lussureggiante, scoperto solo nel 1954, quando un pilota ha fatto un atterraggio d’emergenza in un campo di patate. Ben presto si è scoperto che questa regione inospitale era già abitata da 35.000 anni da un milione di persone. Divisi in tribù, isolati e in lotta tra loro, non potevano supporre l’esistenza di altri modi di vita agli antipodi delle loro culture. E subito sono stati presi d’assalto da avventurieri, esploratori, etnologi. I protestanti sono arrivati qualche settimana dopo e un anno più tardi i miei fratelli cappuccini americani sono sbarcati con il loro aereo e sette tonnellate di materiale. Poco a poco un ponte aereo creava la base missionaria più impressionante, che io abbia mai visitato. Anno dopo anno gli araldi del vangelo estendevano la loro influenza, installando nuove postazioni dappertutto. Ma questi “selvaggi” hanno proprio bisogno di tale dispiegamento di mezzi per scoprire la semplicità del messaggio evangelico? Non a caso Platone descrive ogni istituzione come un “Grosso Animale” e proprio per questo Simon Weil rifiuterà di varcare la soglia della Chiesa Cattolica…

Nel giro di tre settimane, quando comincio a familiarizzare con i vicini, la catastrofe: una terribile malaria mi prostra, facendo crollare i miei progetti.
Passo la convalescenza nel centro dell’isola ed ho tutto il tempo per riflettere. Se io vivo nella baraccopoli dove lavorano (non lo sapevo) dei seminaristi cappuccini, la gente non rischia di fare dei paragoni sui nostri stili di vita? I miei confratelli hanno scelto degli orientamenti molto diversi dai miei. Io sarei, quindi, una contro-testimonianza. Ho approfittato delle comodità che mi offriva il convento, mangiare con loro, utilizzare la lavatrice. Ci vuole la forza di carattere di un Larry per osare di immergersi completamente nella condizione dei più sfortunati. Oppure – terribile paradosso! – il voto di povertà non prepara i religiosi/e a vivere le condizioni di vita dei poveri?

Me ne vado, ma il soggiorno, anche se troppo breve, m’ha insegnato tante cose. Questo atteggiamento più o meno imperialista dei responsabili della chiesa, non è un incidente di percorso e neppure una lamentevole eccezione. Fa parte integrante della sua strategia di potenza per imporre il messaggio evangelico senza rispettare il cammino della gente? In quanto prete di Cristo, come faccio a non rifiutare tutto ciò dal più profondo dell’anima?

Eppure i miei confratelli hanno tanti meriti! Due di loro mi accolgono all’aeroporto con grande gentilezza. Quando aprono il cofano della macchina, il mio zaino non ci sta. Tutto lo spazio è occupato dall’attrezzatura per il golf. Hanno appena fatto la partita settimanale con l’arcivescovo e l’ambasciatore d’Indonesia. E questo non è che l’inizio delle sorprese. Attraversiamo la città, molto popolata e miserabile, e penetriamo in una superba proprietà, un campus all’americana. Siamo nel seminario dove i giovani autoctoni si preparano a diventare preti. Su diverse centinaia di ettari, francescani, domenicani, passionisti, maristi e diverse diocesi hanno costruito le loro case di studio. Tutto attorno vegetazione lussureggiante, prati verdi perfettamente rasati, costruzioni per le lezioni, uffici, biblioteca, chiesa. In fondo alla proprietà un monastero: le contemplative hanno il compito di pregare, giorno e notte, per sostenere la vocazione dei 150 seminaristi. Lontano dai rumori del mondo (e dalle loro radici culturali) si preparano a testimoniare il vangelo.

Il convento dei cappuccini è modesto, ma funzionale. Un quindicina di stanze attorno al chiostro vigilato da Annetta, una cagnolina bianca che gioca con il gatto. Simpatizzo subito con i cinque studenti. Capelli crespi, belle facce brune e sorridenti. Respirano il buon umore e la gioia di vivere. Li osservo. Mi affascinano. I loro genitori appartengono a tribù ai margini d’ogni civiltà. Ed i loro figli, travestiti con la tonaca dei contadini italiani del medioevo, sono sprofondati negli studi. Diventare prete non è una bazzecola. Le materie da ingoiare sono molte: filosofia scolastica, logica, scienze sociali ed economiche, Bibbia e tradizione, storia della Chiesa, diritto canonico, teologia. E pregano con lo stesso ardore. Da mane a sera passano e ripassano nella cappella: ufficio divino, messa, rosario, meditazione, via crucis. Edificato, ho qualche difficoltà ad accompagnare questo ritmo. Dopo gli anni ferventi della gioventù ho perso la confidenza con la preghiera. Ciò nonostante non voglio dare l’impressione d’essere un religioso mediocre.

E’ in questo modo che da secoli, dappertutto, i seminaristi si preparano a diventare dei consacrati, corpo ed anima, alla falange ecclesiastica. I più brillanti perfezioneranno gli studi a Roma. I più obbedienti diventeranno superiori o vescovi con una preoccupazione in più: conservare l’unità nella fedeltà. Apprendistato duro ma meritorio. I seminaristi si mantengono con lavori manuali, sbrigano le faccende, tagliano l’erba, giocano a basket o a tennis, ogni sera preparano pasti eccellenti: hamburger e ketchup, costolette di maiale al barbecue, tartine al formaggio. La domenica, coca-cola. Assistono alle notizie del mondo su CNN, la TV mondiale americana. In breve, diventano dei civilizzati “made in USA”…
Inculturazione all’americana…

Un giorno manifesto ad un educatore il mio stupore su uno stile di vita agli antipodi delle loro tradizioni culturali e, per di più, diverso dall’ideale di Francesco d’Assisi. Mi risponde con questa strana riflessione: “Sì, certo, non vivono nello spogliamento materiale delle cose. La loro povertà si pone su un altro piano. Sono tagliati fuori dalle loro famiglie, tradizioni, radici…”. Quando ero giovane, ci facevano lo stesso discorso. Ma credevo che, dopo il Concilio – illustrato da tanti viaggi papali – dovremmo, al contrario, imparare a partecipare alla vita della gente, a “inculturarci”. Tagliar fuori i futuri preti dal loro popolo è forse il metodo migliore per capire la sua vita ed offrirgli un insegnamento rispondente ad aspirazioni e problemi concreti?

Nicola mi fornirà un esempio di questa Chiesa che, tradizionalmente, cerca di sradicare grossolanamente tutte le culture religiose sciamaniche o animiste, le manifestazioni di una religione primaria, universale e spontanea che, lungo i millenni, è sempre emersa. Le giudica incompatibili con la religione cattolica, vedendo in queste forze oscure al di là del razionale, l’influenza malefica del demonio.
Il papà di Nicola è capo tribù. Da tempo desidera sposare la religione del figlio. Ma si scontra con un dilemma insormontabile: è poligamo. Per lui, avere diverse donne è, dall’alba dei tempi, una necessità vitale che condiziona la sopravvivenza della tribù. La speranza di vita è breve, le maternità ravvicinate, l’educazione dei figli impegnativa. Il mutuo aiuto di diverse donne favorisce la vita familiare per sbrigare le faccende, curare il giardino, il bestiame, la raccolta della frutta e verdura. Una vita comunitaria difficilmente comprensibile per noi, occidentali individualisti. Inoltre il padre si è impegnato davanti al clan di proteggere le sue spose. Dovrebbe spedirle, facendone delle paria, metterle al bando della tribù, affinché lui possa vivere da buon cristiano? Certamente la religione è interessante, perché permette a suo figlio di volare in aereo e gli promette una vita confortevole. Ma che cos’è, si chiede, questa paura sospetta, strana e barbara dei missionari, che danno la caccia al sesso e pretendono fare a meno delle donne? Come considerare i papuasi dei veri fratelli, imponendo loro delle costrizioni impraticabili? In che cosa questo costume si oppone radicalmente alla buona novella offerta da Cristo? Cancellando stili di vita indispensabili per certi popoli, si può sperare di creare una fraternità universale? A meno che, disprezzando mentalità tanto diverse quanto comprensibili, le gerarchie della Chiesa cattolica non cerchino di convertire i “selvaggi” allo stampo occidentale? Il fatterello che segue lo fa presupporre.

“…gli etnologi inventano tante sciocchezze…”

Fin dall’arrivo, nella mia totale ignoranza di questo popolo, della sua storia, cultura, tradizioni, credenze, lingue, miti, leggende, sogni, usanze, cerco dei libri che mi possano aiutare. Nel convento trovo solo i racconti dei missionari, scritti ad uso e consumo dei buoni cristiani amanti dell’esotismo e potenziali benefattori: quello che conta, prima di tutto, è spiegare a che cosa servono le loro preghiere e donazioni. Ma gli etnologi, emancipati dai condizionamenti clericali, senza dubbio avranno scritto opere più oggettive e meglio documentate. I loro studi devono pur esserci da qualche parte nel seminario. Altrimenti li troverò nella biblioteca principale. Un bel giorno, dunque, mi avventuro tra gli scaffali in cerca della sezione “etnologia”. Tra migliaia di volumi trovo collezioni su tutte le questioni religiose, trattati di storia, le battaglie europee, testi occidentali di economia, sociologia, politica, letteratura, le opere di Victor Hugo, di Churchill, di de Gaulle… Ma dove sono gli scaffali di etnologia, antropologia, storia della Papuasia? Frugo, cerco, sfoglio. Nulla. Facendo finta di niente interrogo il seminarista responsabile. Mi squadra con aria stupita: “La storia della Papuasia? Ma non ha storia! Sappiamo troppo bene, che gli etnologi inventano tante sciocchezze. Noi conosciamo il nostro popolo, non abbiamo bisogno di libercoli”.

Non riuscendo a scoprire le caratteristiche dell’anima dei papuasi, incomincio a cogliere quelle dei missionari. Questi ritengono che gli spiriti arretrati devono uscire il più presto possibile dalle loro mentalità e pratiche pagane. Sarebbe un lusso perdere il tempo ad esaminare il loro passato. Abbiamo la missione di introdurli in fretta nelle dimensioni universali operando, nel nome di Dio onnipotente, per incorporarli nella grande famiglia cattolica. Questo è l’obiettivo primario dei missionari. E bisogna rendere loro giustizia: lavorano con una dedizione degna d’ogni encomio e una generosità senza limiti. Fino al punto che i convertiti conosceranno meglio le tradizioni di Roma e di Bisanzio, che quelle della loro cultura.

Credo di afferrare l’intenzione dei missionari. Tagliando fuori i giovani religiosi dalle loro radici, pensano di proiettarli verso l’avvenire. Una domanda: hanno mai riflettuto sul trauma, che la scoperta del mondo occidentale provoca nella loro psicologia, anima, cultura, concezioni di vita e della natura? Bisognerebbe riuscire ad immaginare l’incredibile shock, che i papuasi hanno sperimentato quando un uccello mostruoso s’è posato sui loro campi e ne sono usciti degli extra-terrestri vestiti in maniera sorprendente. E, ancor più curiosamente, avevano la pelle bianca, il colore dei morti.
Come hanno fatto a rendersi conto, che queste strane apparizioni non erano degli spiriti, ma esseri viventi uguali a loro in tutto? E’ successo, esaminando certe deiezioni intestinali rilasciate dai bianchi, che assomigliavano così stranamente alle loro! Bella lezione d’inchiesta “poliziesca e scientifica” e di fraternità dal basso…
I nostri missionari non si sono mai abbassati a delle considerazioni così volgari. Il servizio dell’onnipotente gli impone di offrire ai loro allievi l’educazione migliore possibile, affinché possano essere in grado di trascinare i conterranei verso il Progresso. La globalizzazione è ineluttabile. Anche nella Nuova Guinea è in movimento e ben impiantata. Elite politiche, economiche e finanziarie, nate nel paese, sono all’altezza dell’era tecnologica importata dall’Australia, Giappone, USA. Non resta che aggiungere un’elite religiosa.
In questo contesto la religione cattolica è un di più. Per la sua morale, i suoi ideali umanitari e divini e la sua universalità, essa colora le mentalità, corregge gli eccessi e le tare di una civiltà troppo materialista. Il maggior beneficio: fornire una religione-chiavi-in-mano, di cui anche i papuasi devono poter godere.
A questo scopo sono finalizzati gli studi teologici e la formazione all’americana. Proprietà splendida, scuole famose, centri di cura moderni, programmi sociali, luce elettrica negli avamposti, liturgie grandiose, visita del santo padre, sono altrettante carte vincenti per la propagazione della religione cattolica. Non è proprio il caso di perdere tempo sulle cose del passato. Di fronte a tali magnificenze sconosciute ai poveri pagani, la loro civiltà primitiva dovrà sparire alla svelta.
Un viaggio nel cuore dell’isola, là dove 44 anni fa sono atterrati i primi frati, è molto istruttivo per capire con quale determinazione hanno perseguito il loro obiettivo senza preoccupazioni etnologiche o psicologiche.

Un angolo d’America in Papuasia

Attorno all’aeroporto il simpatico brulichio delle folle del terzo mondo. Negozi, depositi, mercati, gente disoccupata o sfaccendata. Gli orari degli aerei ritmano le attività del villaggio. I miei confratelli m’accompagnano alla missione cappuccina. Stupore senza fine. Dal caos antecedente la creazione, essi hanno ricavato un angolo d’America. Stupefacente, fantastico. Incredibile, miracoloso. L’Eden, il paradiso terrestre. Un complesso enorme, prati rasati alla perfezione. Non c’è bisogno di irrigazioni sofisticate, il cielo s’incarica di far crescere per incantesimo fiori multicolori e piante paradisiache. Uno splendore!
Costruzioni semplici e confortevoli sono disseminate nell’immensa proprietà: cattedrale imponente, residenza episcopale, convento dei religiosi, abitazione per le religiose. Alloggi per gli insegnanti, clinica, cappelle e campanili a volontà. Scuola primaria per 500 alunni, collegio per 2500 studenti. Aule, dormitori, cucine, refettori, chiesa, officina per i numerosi veicoli: una trentina. Il loro aereo, troppo costoso, non è che un ricordo.
Ed i confratelli a raccontarmi, con dovizia di particolari e legittima fierezza, la loro epopea, fatiche, difficoltà insormontabili. Un dispendio straordinario di energie, sacrifici, abnegazioni, sogni, sofferenze. Dopo 44 anni di presenza constato con mano i loro risultati spettacolari. Ma, in definitiva, a quale scopo?

La mattina dopo il direttore della scuola mi presenta agli allievi in una dozzina di classi. Il rituale è strettamente identico. Silenzio impressionante. Un colpo di bacchetta sulla scrivania:
-    “Ripetete dopo di me: Buongiorno, padre mio”.
-    “Buongiorno, padre mio”.
-    “Siamo contenti di accogliervi” (bis).
-    “Concedeteci di dedicarvi una canzoncina” (bis).
Approvo con entusiasmo. Il canto è scritto sulla lavagna. Poi qualche domanda già programmata. Io ne suscito di nuove. Come ringraziamento, propongo una canzonetta in francese: “Alouette” (grande successo!). Poi, mezzo provocatore, mezzo demagogo – non mi sento a mio agio in un’atmosfera che ha dimenticato la libertà che questi bambini hanno vissuto per 35mila anni - mi lancio con Brassens. Per educazione il maestro mi chiede di tradurre. Gli alunni si rilassano. Ma il baccano di una agitazione inusitata si propaga attraverso le pareti. Da una parte sorrisi forzati, dall’altra un’emancipazione gioiosa e ciarliera come uno zeffiro liberatore.
Il giro viene abbreviato.

Un giovane curato autoctono, responsabile del settore più lontano della missione, mi accompagna ad esplorare la regione. Padre Lois, poco ciarliero, mi fa percorrere centinaia di chilometri su piste impossibili ritagliate nella giungla o salendo a 2000 metri. Traballando, sferragliando, slittando, raggiungiamo i posti più avanzati. I cappuccini sono arrivati da pochi anni, ma le installazioni sono già completate. Chiesa, canonica (vuota per mancanza di preti), grande casa per le suore (ce n’è una sola), scuola per 250 alunni, campo sportivo, centro di cura modernissimo.
Lois mi racconta la storia di questo dispensario. E’ stato costruito in fretta per rispondere ai supposti bisogni della popolazione. Prima di tutto bisognava guarire le malattie endemiche di cui soffrivano da 35mila anni. Attirati dalla dedizione degli stranieri, gli indigeni accorrevano da lontano per farsi curare. Con un evidente vantaggio: andavano via via raggruppandosi, formando un villaggio, vivendo una vita meno isolata. In questo modo veniva facilitata una evangelizzazione più razionale. Con un sorriso, a volte riservato, discretamente ironico, ma scettico e deluso, Lois commenta: “Questo era il progetto dei nostri frati americani, spinti dalla realizzazione del regno di Dio, introducendo le tribù dei dintorni nella civiltà. Ma, fin dalla inaugurazione, il dispensario è stato teatro di litigi e contestazioni tra clan rivali. La cosa più saggia, quindi, è stata quella di chiudere tutto nel giro di qualche mese”. E, dopo quattro anni, costruzioni, materiale medico, strumenti chirurgici sono in stato di abbandono. Ai bordi della missione erano iniziati i lavori titanici per costruire una diga. La turbina, trasportata con enormi difficoltà, doveva produrre elettricità. Il suolo non era adatto e una piena ha portato via tutto. Non sarebbe stato meno dispendioso fare uno scaffale di antropologia nella biblioteca del seminario?

Apostolato con l’entusiasmo di un bulldozer

Gli indigeni accolgono i loro pastori con profondo rispetto, molta cortesia e un pizzico di servilismo. Le convertite portano abiti decenti, cioè i vestiti recuperati nelle buone parrocchie americane. Lois mi racconta un aneddoto piccante. Un giorno, in occasione della visita di un’autorità civile, le donne si sono fatte belle: tatuaggi, corone floreali, costume tradizionale, cioè una gonnellina di palma. Spaventato per tanta sconveniente nudità, il buon padre da l’ordine di nascondere i seni provocanti. Allora, sottomesse ed obbedienti, con gesto elegante, coprono le loro forme, sollevando le gonnelle.

Lois non è a suo agio. Si sforza di familiarizzare e, nel contempo, di mantenere una certa distanza artificiale dalle sue pecorelle. Sulla strada del ritorno, all’improvviso, mi apre il cuore. E, ascoltandolo, ho l’impressione di sentirmi parlare.
Soffre per l’abisso tra l’ideale sognato e quello che vive oggi. Nel suo intimo sente i bisogni e aspirazioni della sua gente. Vive il loro profondo traumatismo. Allo stesso tempo, questa civiltà straniera li attira irresistibilmente anche se gli fa orrore. Il totale disprezzo dei loro valori millenari li turba nel più profondo del loro spirito. Conclude: “Sei venuto a condividere la vita dei delinquenti. Ma, prima che arrivassero gli occidentali, questi non esistevano. I nostri frati fanno l’apostolato con l’entusiasmo di un bulldozer. Senza mai capire che i loro modi di fare fabbricano, ogni giorno un po’ di più, dei nuovi delinquenti”.
E mi racconta – prima di fornirmi un documento a questo proposito – una delle origini delle canaglie come conseguenza del “Culto del cargo (nave da carico)”.
Una storia curiosa, tragica e penosa, che si è ripetuta in altri punti del globo quando antiche popolazioni hanno dovuto confrontarsi bruscamente con la nostra civiltà. Per esempio gli indiani dell’America del Nord nella “Danza degli spiriti” o in Africa attraverso quello che viene definito il “Profetismo”. Si tratta dello spontaneo rifiuto dei bianchi, trattenuto a lungo, ostentato all’improvviso, grazie a manifestazioni soprannaturali secondo la logica mitica della tradizione locale. Situazione drammatica. Perché gli occidentali, inconsapevoli dei valori che stanno per annientare, rispondono con la repressione per imporre ciò che ritengono meglio per quei popoli… che non hanno chiesto niente?

Il “culto del cargo”

Un bel giorno, dunque, nel secolo scorso, su un’isola dell’Oceania, gli abitanti d’un villaggio sono stati presi da una strana frenesia. Il fenomeno si propagava con la rapidità del fulmine. Le popolazioni andavano in trance, abbandonavano i lavori quotidiani, lasciavano marcire i raccolti, si lasciavano andare. Poi questa malattia scompariva, sprofondando gli abitanti nella disperazione, prima di riprendere in maniera ancor più acuta un po’ più lontano. Specialmente attorno alle residenze missionarie. 1867, 1893, 1919, 1932… come se questa follia accompagnasse le installazioni che, anno dopo anno, si ampliavano sempre più. L’epidemia assunse proporzioni gigantesche tra il 1945 e il 1950. Si manifesterà ancora? Gli etnologi non lo escludono affatto.

Da dove veniva questa anomalia collettiva? Sembra che i papuasi assimilassero troppo bene la dottrina cristiana. Era una vera buona novella che i missionari, cattolici o protestanti, annunciavano: un dio risuscitato dai morti prometteva la vita eterna a coloro, che accettavano il battesimo. Che cosa c’è di più meraviglioso di questo? Le conversioni non tardarono a moltiplicarsi con grande soddisfazione della Chiesa, che si scontrava con l’ostinato rifiuto degli asiatici troppo strutturati nelle loro religioni tradizionali. Qui, invece, i suoi predicatori vedevano gli animisti pagani aprirsi al messaggio con entusiasmo e senza problemi. Come in America Latina ed in Africa, i popoli d’Oceania bevevano le loro parole. Così la Chiesa poteva rendere grazie alla divina provvidenza… troppo poco curiosa di sapere a che cosa attribuire questa infatuazione miracolosa. Il “Culto del cargo” non avrebbe potuto essere una pulce dietro l’orecchio?
Infatti, per gli aborigeni, il nuovo dio sembrava onnipotente. I preti, dalla pelle stupendamente bianca e dalle barbe impressionanti, volavano in aereo ed avevano oggetti stupendi. Senza dubbio dovevano essere dotati di poteri magici. Chi aderiva alla loro religione ne ricavava dei vantaggi. L’obbligo di vestirsi decentemente con abiti regalati, lungi dall’essere una costrizione, era considerato una promozione. Le adesioni si moltiplicavano… ma, con il passare del tempo, le favolose ricompense promesse tardavano ad arrivare. Poco a poco, gli indigeni hanno il sospetto che i missionari li abbiano ingannati. Questi vivono comodamente nei loro recinti, ma non condividono le loro ricchezze. Si accontentano di ripetere sempre le stesse parole e, nelle scuole, insegnano cose strane. Allora cominciano a circolare delle voci, dei “si dice”: se non condividono i loro beni è perché, proprio come il dio risuscitato che predicano, sono usciti dal regno dei morti. Peggio, appartengono a delle tribù papuase, a dei vicini rivali, che li combattevano quando erano vivi. Si sono appropriati delle loro ricchezze e, passati nel regno delle ombre, esse si sono trasformate in oggetti magici e onnipotenti.
Ricamando su questi temi, la psicosi s’impadronisce della gente. Se i nemici vengono oggi a farsi gioco di loro, i loro antenati, quelli delle loro tribù, verranno presto a difenderli. Discenderanno dal cielo o verranno con navi da carico colme di tabacco, vestiti, conserve, pile elettriche, asce, coltelli, munizioni. Con queste risorse saranno abbastanza forti per ingaggiare battaglia e riprendersi i beni, che gli stranieri gli hanno rubato. Li ributteranno in mare e osserveranno le antiche tradizioni nel lusso delle ricchezze recuperate.
Bisogna quindi prepararsi per ricevere degnamente gli antenati: provvedere tavoli,  tovaglie, coperti alla moda occidentale. Non c’è bisogno di accumulare cibi e bevande, i nuovi arrivati li riforniranno in abbondanza. Inutile, quindi, perdere tempo a coltivare l’orto, allevare polli e maiali. Invece è urgente costruire grandi depositi per immagazzinare i favolosi beni, di cui saranno sommersi. Innalzano torri d’osservazione e, giorno e notte, scrutano l’orizzonte. Il ritmo del villaggio viene sconvolto. Si diffondono le notizie più folli. Deliri, isterie contagiose e danze continue per attirare i loro messia, ma senza disertare le chiese. I missionari sono onnipotenti, non bisogna alienarsi la loro benevolenza. Tutt’al più si permettono di rubare senza scrupolo quello che trovano nei loro insediamenti. E, se arrivano ad uccidere qualche religioso, è perché questi si è mostrato poco comprensivo, intransigente, o, in ogni caso, poco psicologo. Grazie a ciò, potrà essere canonizzato dal santo padre…

Nel 1945 l’epidemia arriva ad un’intensità inimmaginabile. Bisogna ricordare che la parte orientale della Papuasia è nel cuore delle più violente battaglie del Pacifico. I giapponesi controllano le coste. Port-Moresby viene distrutta da bombardamenti massicci: 150.000 giapponesi uccisi, un milione di soldati americani attraversano l’isola. La guerra mondiale gioca un ruolo determinante nell’intensificazione del “Culto del cargo”. Scoprendo questo fantastico dispiegamento di materiali, armi, aerei, costruzioni, i papuasi si rendono conto fino a che punto le ricchezze degli occidentali siano senza limiti. Ricchezze che, esposte sulle loro terre, ritornano a loro a pieno diritto. Ma nello stesso tempo constatano che gialli e neri – razze che assomigliano a loro – sono già riuscite ad accaparrarsi una parte dei tesori dei bianchi. Questi bianchi non sarebbero forse meno potenti di quello, che vorrebbero far credere? Per vincerli basta imitare neri e gialli. Ed ecco che gli aborigeni si mettono a costruire, lungo le coste o nella giungla, dei radar, antenne radio, piste d’atterraggio, sistemi di segnalazione con materiali recuperati nelle discariche militari: pezzi di filo, di legno, di metallo, casse usate, lampade rotte, ecc. E aspettano. Aspettano settimane, mesi in un delirio di danze sfrenate, canti selvaggi, grida isteriche. Ma il dubbio, poco a poco, prende piede. Si calmano, prostrati, disperati. Le riserve di cibo esaurite, le piantagioni incolte, invase dalla giungla, cominciano a morire di fame. Allora emigrano verso la capitale. Non sanno lavorare alla moda occidentale, nessuno li ingaggia, non c’è impiego per loro. Port-Moresby diventa un’immensa baraccopoli. Non gli rimane che una soluzione: rubare. Le canaglie sono nate.

I “primitivi” non hanno né abbandonati né esclusi

Non mi ero mai reso conto, che i popoli primitivi non hanno né abbandonati né esclusi o trascurati. Coloro che si sentono diversi, malati, inutili possono tagliarsi fuori dal clan fino ad arrivare al suicidio. Sono i grandi imperi assiri, babilonesi, romani che, allentando la coesione dello spirito clanico, avviano il processo di pauperizzazione. Se ci avessi riflettuto quando vivevo in mezzo ai Maia, avrei potuto constatare, che la vita sociale dei villaggi tradizionali incorporava tutti i suoi membri compresi quelli più deboli e indifesi. Nessuno sembrava più povero del vicino. Per una semplice ragione: la mentalità occidentale esaspera l’istinto di proprietà, grazie al quale affermiamo la nostra personalità unica ed originale. Ogni spot pubblicitario ci rafforza inconsciamente nella sensazione gratificante della nostra individualità. Inoltre, per il timore di mancare del necessario, abbiamo ingigantito le nostre abitudini al rifornimento, alla preveggenza, all’accumulo, mai soddisfatti di riempire la casa delle cose più ingombranti e superflue.
I Maia – ma anche i papuasi e le prime civiltà impregnate di mentalità sciamanica – agiscono in maniera diversa. Per loro il possesso dei beni non è segno di ricchezza. Il dono generoso e senza calcolo è un segno essenziale di potere e di autorità. I più capaci di accumulare beni danno prova della loro superiorità, facendoli circolare a beneficio della comunità. Da qui il loro senso della festa: fuochi d’artificio, banchetti, sbronze collettive. Ai nostri occhi queste orge appaiono sprechi assurdi da parte di gente sprovveduta. Presi da compassione siamo pronti ad insegnare loro i benefici della Cassa di Risparmio e i vantaggi degli investimenti in Borsa.

Ad ogni modo, questo shock di culture completamente diverse è il trauma più profondo capace di scombussolare le psicologie di quelli che lo subiscono. Distrugge una concezione umanissima della vita, quella di cui noi occidentali – avendo modellato la nostra personalità nell’individualismo più forsennato – siamo totalmente carenti: il senso della condivisione. Da qui scaturisce un intollerabile paradosso: venuti con un’immensa generosità per “civilizzare i selvaggi”, predicando loro la parola divina (di cui loro erano già impregnati), i missionari si trovano all’origine del fenomeno dei delinquenti…

Ed io, giunto in Papuasia per vivere tra le più terribili canaglie della terra – perché questo è il posto di un fratello di S. Francesco, – constato, che alcuni di loro si lasciano “ammansire” gentilmente dall’amore rispettoso ed esigente di Larry. Peggio, m’accorgo, che ci sono dei briganti molto più perniciosi, quelli che l’ingordigia del lucro trascina a massacrare intere popolazioni per appropriarsi del loro legname, minerali, petrolio, terre, riducendo gli autoctoni in miseria e schiavitù.

Ma i missionari? Non appartengono a questa razza predatrice e dannosa? La loro generosità è estrema, la dedizione senza limiti. Non hanno vissuto 20 o 40 anni lontano dalle loro radici ed in condizioni climatiche spaventose? Hanno consacrato la vita ad un ideale eccelso. Davanti a loro, io, povero eccentrico, arrogante, mi sento rimpicciolire.
Pertanto, come me, li scopro vittime inconsapevoli di un “grosso animale” ecclesiastico spiritualmente vorace. Mi sembrano degli “utili idioti” o “innocenti-nocivi”. Nel corso dei secoli la “Bestia” ha calpestato intere popolazioni, non lasciando altro, a guisa di ricompensa, che la speranza della vita eterna a condizione che si accetti, e di buon grado, di essere annientati nella propria cultura, credenze, anima. Atteggiamento opposto all’insegnamento del Salvatore, mentalità agli antipodi dello spirito evangelico.
Non è forse un’insolenza insigne installarsi presso degli stranieri senza sollecitare il loro permesso, adoperandosi a violare i loro territori, distruggere i loro santuari, sconvolgere i loro modi di vivere, imporre nuovi stili di vita, squalificare credenze, violentare coscienze, gettare intere popolazioni nella miseria più nera, senza mai porsi la domanda: queste pecorelle aspettavano proprio i nostri dogmi e la nostra morale occidentale per sopravvivere?

“Ma il nostro zelo apostolico – grideranno le anime buone -  è la missione che abbiamo ricevuto dall’Altissimo! E’ l’amore per la verità e la religione che ci divora e ci manda tra i pagani!”.
In questo caso la nostra maniera d’agire è ancor più penosa. Operiamo nel nome di Cristo? Ebbene, agiamo come lui. L’albero non si giudica dai frutti? Ora i frutti non solo sono rari, ma perversi e l’albero tende a deperire. Fico più che sterile, strangolatore del globo stesso fino a soffocarlo… A forza di evangelizzazione il pianeta rischia di non essere mai stato tanto evangelizzato quanto “stra-clericalizzato”… (“étrange-Eglisée”).
Il potere religioso: la peggiore delle perversioni?

Ecco cosa m’insegnano le canaglie: prima di andare a scocciare gli altri con le mie certezze esasperate devo accogliere, approfondire il vangelo in me stesso. A che serve, infatti, predicare una religione – la migliore che ci sia – se alla fine dei conti mi rendo colpevole e complice di tali mostruosità? Che dire di una religione che, nel corso dei secoli, s’è sforzata di distruggere sistematicamente l’anima dei popoli, imponendo credenze agli antipodi dello spirito di Cristo con la paura dell’inferno, con le chiacchiere, con il lavaggio del cervello? Quando non si è fatto questo con la spada e con il boia?
Per i cristiani è ancora difficile osare di fare questa constatazione, che per i liberi pensatori ha più di duecento anni. La nostra educazione religiosa, in ritardo di due secoli, ha incrostato in noi clericali la convinzione, che la Chiesa “non può ingannarsi né ingannare”.
C’è voluto un Bartolomeo de Las Casas per denunciare certe aberrazioni religiose. Giunto nelle Antille per fare fortuna, si rende conto di dover mettersi nella pelle dei suoi schiavi se vuole anche solo immaginare quello che succede nel loro cuore. E così arriva a leggere i vangeli con uno sguardo nuovo fino a capovolgere il suo atteggiamento e interpellare i contemporanei. Diventerà uno dei primi, ma anche uno dei rari “missionari denunciatori”. Cinque secoli più tardi Monsignor Romero fa un percorso simile. Lui, il prelato della buona borghesia di Salvador, un giorno capisce fino a che punto il suo modo di vedere e di agire è un non-senso evangelico. Due anni dopo, in piena messa, ne paga il prezzo con il sangue.

Constatando le nostre arroganze, tanto indegne quanto paternaliste, abbasso la cresta. Il fascino, il possesso, l’ubriacatura della più potente delle droghe dell’anima umana, il Potere, a qualunque livello, prostituisce le migliori intenzioni, in quanto non servono che di paravento. Il potere sull’anima dei propri fratelli è la peggiore delle perversioni. Droga così potente che, come l’eroina incrostata nella personalità,  praticamente è impossibile disintossicarsene.
Che potere aveva Gesù inchiodato sulla croce? “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”. E’ in quell’istante, che ha manifestato il potere stesso di Dio: sradicare il proprio istinto di schiacciare i fratelli con la sua verità, i suoi principi ed i suoi dogmi, con il semplice pensiero di dominare per abbandonarsi alla loro buona volontà e far nascere in essi, forse, il desiderio di amare.

La fede cristiana ha fatto meraviglie grazie a miriadi di anime generose, che, seguendo l’esempio di Cristo, hanno visto con sguardo amoroso i loro fratelli e sorelle in disagio. Scorrendo i vangeli scopriamo, infatti, che il genio di Cristo consiste nel suo sguardo sulle persone. Al di là delle apparenze scopre immediatamente i sentimenti più profondi degli interlocutori. Ma come parlare d’amore del prossimo, rispetto delle persone, fraternità universale quando il messaggio evangelico lascia un gusto amaro nell’anima degli indigeni e stronca le loro ricchezze spirituali? Come non urlare di vergogna e disperazione su un campus paradisiaco dove 150 seminaristi papuasi si preparano al sacerdozio? Siamo dei criminali, noi, che, accecati dalla nostra civiltà arrogante, assassiniamo il loro spirito. “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete mari e continenti per fare un proselito e lo rendete degno della geenna due volte più di voi”.

Nella loro semplicità i giovani papuasi come Lois si sono affidati ai missionari stranieri con fede. Lo spirito di Cristo e di Francesco è in armonia con i sogni, desideri, aspirazioni nascoste nelle tradizioni millenarie del loro popolo. I folli programmi dei loro studi come possono far sbocciare le ricchezze accumulate nelle loro culture ancestrali, in armonia con la flora, la fauna, l’ambiente, il passato della loro terra? Come si fa ad entrare in una psicologia così dissimile dalla nostra? Soltanto loro possono essere il legame essenziale per tradurre ciò che le loro famiglie portano in se stesse - per quanto tempo ancora? – in una giungla ricca di esperienza accumulata nel corso di 35 millenni?

I briganti siamo noi…

Sono venuto per condividere il resto della mia vita con le canaglie. E, alla fine dei conti, cosa scopro? Gli autentici briganti siamo noi, noi, i religiosi, i missionari.
Ormai è attraverso gli occhi di tutti quelli che noi – funzionari della “Bestia sociale, ecclesiale, occidentale e globale” – stiamo per ferire o uccidere, che scopro la mia ipocrisia, io che sono funzionale alla sua azione predatrice.
Devo ancora cercare di spezzare i tabù che ci trattengono, che ci impediscono d’essere fratelli. E, se rischio di oltrepassare i limiti delle buone maniere clericali, io stesso fornirò una buona quantità di “bastoni” per farmi bastonare – fino a provocare l’esclusione, la scomunica o qualche altra graziosità evangelica – ma è semplicemente, perché voglio essere un vero discepolo di Gesù Cristo. Cioè: io, che dispero della Chiesa e di me stesso, voglio condividere la mia vita con coloro che si disperano.

Seconda parte

Di fronte al trono di Pietro…

Sulla via del ritorno sosto a Roma. Ho bisogno di riconfermare me stesso, nel cuore della cristianità, che appartengo alla razza di chi vuole vivere ancora e sempre meglio lo spirito di Cristo. I miei fratelli delinquenti m’hanno traumatizzato. E voi, apostoli Pietro, Paolo e tutti gli altri, sapete cosa ne è stato di questa Chiesa, di cui siete i primi missionari?

Giungo nella basilica vaticana proprio nel momento, in cui il successore di Pietro inizia il pontificale in onore dei preti spagnoli, martiri della fede, fucilati dai repubblicani comunisti, i quali non hanno capito la buona volontà del generale Franco di restaurare la fede della cattolicissima Spagna.

Confesso che, passate le prime emozioni, m’annoio da morire. In questo cimitero, dove riposano due o trecento papi, ho l’impressione d’essere all’opera. Coro, organo, trombe d’argento, attori, folla di figuranti nei costumi sfarzosi d’altri tempi. Ciò non m’impedisce di ammirare gli angioletti dalle chiappe arrotondate e dal sesso a volte accentuato, che sostengono le figure dei papi. Poi mi sorprendo ad osservare i dettagli del monumento più fantastico della basilica: il trono di S. Pietro. Meraviglioso, bizzarro, delirante. Come farò a descriverlo ai miei amici papuasi? Bisogna che riescano ad immaginare un sole d’oro e degli stucchi, bambinelli che giocano a nascondino, angioletti svolazzanti su nubi teofaniche verso la colomba della pace. Da questa nube celeste scende il trono di San Pietro. Nero ebano e dorato. Poltrona  tra le più confortevoli? Un papa seduto là in alto, i piedi nel vuoto? Ce n’è abbastanza per farsi venire le vertigini. Quattro pezzi d’uomo – Agostino, Basilio, Atanasio e non so il nome dell’altro –, seri come si conviene a dei papi, mitria in testa, larghi veli che volano al soffio dello spirito, sono piazzati ai piedi del trono con colonne a spirale, che sembrano sul punto di spedire il monumento verso l’Empireo.

I papuasi avranno già sentito parlare di san Pietro? Un tipo sui generis, il nostro primo papa. Proviamo ad immaginare la sua testa, la bocca spalancata, lo sguardo sbalordito davanti a questo pezzo hollywoodiano. Mi pare di sentirlo borbottare: “Un trono, un trono d’avorio? Perché i cristiani degeneri d’oggi immaginano, che ho il tempo di sedermi su un pezzo da museo? Schiavi, mendicanti, soldati, prigionieri, malati, senatori, matrone non divoravano ogni momento dei miei giorni e delle mie notti? Il Signore m’ha affidato una responsabilità enorme: annunciare miriadi di buone novelle a tutti coloro che, ricchi o poveri, soffrono nel corpo o nell’anima; trasformare l’impero romano affinché ogni uomo, ogni donna di buona volontà sia felice di vivere e si senta a suo agio nei suoi sandali. Una missione molto semplice. E terribilmente difficile. Oso sperare che i miei degni successori non si lascino andare a fronzoli e chiacchiere. Non è da noi andare in visibilio di fronte a questi capolavori borghesi e decadenti!”.
Loro, i miei papuasi, non ci capiscono niente. Ed io non sono che all’inizio di queste stravaganze clericali. Sappiano solamente che il trono di San Pietro è il simbolo eloquente di una Chiesa, che ha detronizzato i piccoli papuasi del mondo intero per imporre con la forza la sua potenza, nel nome dell’Amore più grande.

La Chiesa, ovvero l’impero della cristianità…

Bighellonando nella città eterna mi rendo conto fino a che punto il peso della storia e delle pietre non va d’accordo con lo spirito del vangelo. Il maligno ha messo il Cristo sul pinnacolo del tempio? La Chiesa gli ha costruito un impero in questo mondo: la cristianità.
Percorro le vestigia gloriose del Foro per discendere lungo la “Via Sacra”, in altri tempi così prestigiosa. Oggi non è che un sentiero di campagna. I “Grandi” di questo mondo continuano a scendere sui Campi Elisi o sulla Quinta Strada, trascinandosi dietro i popoli vinti e incatenati dal Fondo Monetario internazionale o dalla Banca Mondiale. Mi pare di sentire quello schiavo, che precedeva il conquistatore e gli gridava senza tregua: “Non dimenticare, Cesare, non sei che un uomo!”.
La cristianità, quando non demoliva fino all’ultima pietra per costruire santuari, palazzi, ville e fontane, cercava di battezzare le rovine dell’impero con il Panteon, il Colosseo, il tempio di Vesta, il mausoleo di Adriano, ecc. Ha messo la croce perfino sugli obelischi egiziani. La città, ormai, è consacrata al suo vero dio. Ma quale rapporto ci può essere con il Dio di Gesù Cristo?
Basiliche e chiese venerabili impregnate d’arte antica ci sprofondano nel magico raccoglimento di un estetismo solidale con la pietà. Nel corso dei secoli i santuari si sono arricchiti di uno strabiliante accumulo di volumi e di forme; attraverso i rinascimenti successivi, ogni papa, “Pontifex Maximus”, era preoccupato di registrare il suo nome nel marmo allo scopo di proclamare la potenza del suo dio o la sua devozione alla Vergine.

Di volta in volta devastata dal fuoco, distrutta dalle invasioni, dispersa dai saccheggi, Roma-la-splendida non è stata, a più riprese, che un grosso borgo di 30.000 anime. Nel 1527 – come tra il 1305 e il 1377 e intorno al 476 – capre, vacche e maiali pascolavano sulla piazza S. Pietro, al Campidoglio e al Foro. Ma essa riprende il pelo della “Bestia” quando, passando da Siviglia, l’oro e l’argento affluiscono a Roma dalle miniere di Potosì, nelle quali otto milioni di schiavi amerindi periscono sotto la frusta dei loro cattolicissimi padroni. L’oro che fa luccicare gli splendori che io ammiro, non è il frutto dell’incommensurabile sofferenza dei popoli scoperti dai conquistadores, popoli crocifissi dalla rapacità ed arroganza dell’occidente cristiano? Il tutto nel nome del Figlio di Dio! E l’aristocrazia romana, allora, si prodigava a scialacquare fortune favolose e mal acquisite in capolavori meravigliosi e stravaganti. Investimenti vantaggiosi grazie ai quali, attraverso gli intrighi, il sesso ed il veleno ci si impossessava delle più alte cariche della cristianità. E, dai suoi palazzi, lanciava i missionari alla conversione dei pagani, degli eretici e degli infedeli. Guai a chi, tra loro, non si sottometteva al messaggio d’Amore di Gesù crocifisso.
Nel momento in cui dei cattolici si rivoltano contro una prostituzione così abominevole e passano al protestantesimo, Roma ne combina ancora di più. La strabiliante arte barocca diventa il simbolo della potenza conquistatrice dell’Unica verità. Nel nome trionfante di Gesù Cristo… appeso al patibolo.

Il popolino capirà il messaggio di Cristo?

Gironzolo per le strette vie di Transtevere. La biancheria appesa alle corde da finestra a finestra, dà al quartiere un sapore di popolino. A colpi di claxon i tricicli a malapena riescono a inquietare le donne, che, a gran voce e a scoppi di risate, sgridano maternamente i loro marmocchi padroni della strada. Nel cuore di questi splendori ed aberrazioni del passato, oggi, questo popolino come può capire il vangelo?
Mi rendo conto fino a che punto il messaggio evangelico, a Roma, non è al suo posto. E i preti intonacati come fanno ad avere l’incoscienza di predicare un messaggio d’Amore e di condivisione? Che cosa significa per il popolino, muto testimone delle disavventure dell’epopea cattolica?
Senza dubbio queste persone sono fiere d’essere cittadine della città auto-proclamatasi “Eterna”. Da millenni si sono istallate sulle colline e hanno partecipato alla sua storia. Ma qual è, per loro, il messaggio originario di Cristo? D’altronde ne sentono bisogno? Esse sanno, nel profondo, quali sono le divinità più efficaci. Le invocano attraverso la vergine nel santuario di Trastevere, celebrando l’antica festa folcloristica di luglio durante la quale, per una settimana, si balla, si va in processione, si mangia, si lanciano petardi. I turisti sono i benvenuti per i loro soldi. E, per i problemi di tutti i giorni, le opere di carità della parrocchia e l’esercito della salvezza sono là proprio per dare una mano. Ma la vita e l’esempio del clero cattolico romano sono in grado di illuminarle?

Degli amici m’invitano a mangiare fettuccine bagnate di barolo all’“Acqua viva”, a due passi da piazza Navona, tra il Parlamento ed il Senato. E’ qui che si ritrovano prelati e politici d’alto rango. Un ristorante diretto da religiose! Il servizio ai tavoli è assicurato da vergini consacrate al servizio dei buongustai internazionali. Durante il pasto, nel sottofondo, la musica religiosa consiglia di elevare l’anima a colpi di sacra forchetta. Si servono i migliori vini francesi e menu esotici: piatti della Nuova Caledonia, dello Zaire, India, ecc.
Miei poveri papuasi, sono proprio strani questi romani! E’ come se, lungo i secoli, la Chiesa si ingegnasse costantemente a creare delle situazioni, che la costringono a non vivere l’evangelo. Certamente i cattolici praticano molte devozioni al posto della vera fede. Praticante ma non credente, questa è la cristianità.

A otto anni ho preso il vangelo sul serio

Ormai, o Cristo, ti chiamerò con il tuo vero nome: Yeshouah, Figlio dell’uomo. Un nome d’uomo, figlio di un uomo. Tutto un programma. Tu sai che ho preso sul serio il tuo vangelo all’età di otto anni. Un compagno di scuola m’ha fatto capire – a sue spese – che essere cristiani non è una buffonata. Per questo ho deciso di seguirti.

E’ il mio miglior amico. Giochiamo sempre insieme. Viene a casa, facciamo i compiti, prende a prestito i miei giocattoli. Ed io, figlio unico con cinque sorelle, lo scelgo come mio fratello. Un bel giorno, ammalato, non viene a scuola. La giornata mi pare lunghissima. Mi manca. Il maestro mi incarica di portargli i compiti. Non sapendo dove abita, mi da l’indirizzo. Arrivando da lui, tutto il mio bel universo crolla. Impensabile, incredibile, inimmaginabile. Abita in un tugurio in via de Fagnières. E’ un sotto-proletario. Colui che ho eletto come mio fratello non è che un misero. Mi sento umiliato, tradito, disonorato. Questo poveraccio non è degno di me. Mi influenzerà? Mi guardo allo specchio: comincio ad assomigliargli? I bambini della scuola mi disprezzano. Ormai ho paura di lui. Comincio ad odiarlo, a canzonarlo.
Mia madre sa trovare le parole per farmi vedere la mia arroganza e la mia stupidità. Non è una tara essere amico di un poveretto. Al contrario. Egli si sente doppiamente umiliato se lo privo della mia amicizia. Vorrei aiutarlo, sentirmi vicino a lui. I sacrifici che il catechismo mi chiede non sono una soluzione sufficiente. Allora  penso che potrei farmi prete. Perché associo la miseria al sacerdozio? Forse ho il presentimento che il prete riceve una forza dall’alto, che, da solo, non riesco a darmi. Comincio a credere, che solo i preti devono essere capaci di questo eroismo: amare i poveri. Allora penso di farmi prete. Consacrandomi al servizio della Chiesa, mi sarà impossibile tradire l’amicizia di un compagno miserabile, come sono tentato di fare oggi?
Non sono mai più riuscito a riconquistare la sua fiducia. L’ho definitivamente ferito. Questo fatto orienterà tutta la mia vita.
E’ lui che ho sempre cercato attraverso i miei incontri con i falliti della terra. Poco a poco m’ha fatto capire, che era inutile cercare Dio nelle nubi. “Avevo fame, ero malato, ero carcerato, abitavo in via de Fagnières…”. Tu, Signore, sei realmente presente in ogni essere, che soffre e noi siamo naturalmente tentati di disprezzare.
Puoi immaginare il mio stato d’animo quando mi trovo a Roma, ma anche altrove, nel mondo, dove la Chiesa prostituisce il tuo messaggio sotto gli orpelli d’una religione trionfante. A Salamanca, per esempio.

Salamanca: “Trionfo della Chiesa cattolica”

La cornice è prestigiosa. Chiostri dalle proporzioni gigantesche, cortile con piante e alberi da frutta, fiori esotici, chiesa d’una ricchezza inaudita. Nel museo attiguo alla sacrestia, grande come una cattedrale, medito su un capello della Vergine, qualche vestito degli apostoli e l’inevitabile “pezzo autentico della croce di Cristo”. E un affresco, nel quale, soltanto un diavolo buffone atterrato dall’arcangelo San Michele, mi sembra assai simpatico.
Nel coro dei religiosi (sessanta stalli imponenti, scolpiti in legno), un monaco è sprofondato in preghiera. Mi siedo e contemplo l’enorme quadro, che ricopre la parete. Un carro trainato da focosi destrieri attraversa la tela, schiacciando dei barbari nudi e dei negri dalla bocca contratta in una smorfia. Un religioso li cavalca, in piedi sulle staffe, con vesti sacerdotali, la stola al vento. S. Domenico, al centro del dipinto, offre il rosario ad un principe, che il boia sta per sgozzare. L’affresco è intitolato: “Trionfo della Chiesa cattolica”. E’ in questo istante che mi viene alla mente: ma questo monastero non era il quartier generale della santa inquisizione? Il terribile Torquemada forse ha passato lunghe ore in ginocchio proprio dove mi trovo io, supplicando il suo dio di ispirarlo per compiere gesta purificatrici, lui che, a forza di flagellazioni e cilici, voleva estirpare dal fondo dell’anima i suoi demoni. I confratelli domenicani lo circondavano, qui, nel coro, cantando i salmi, leggendo il vangelo e cercando nella preghiera i mezzi migliori per far confessare gli eretici e far trionfare l’unica e sola vera religione. Tutti, dai superiori fino agli umili fratelli laici, avevano la coscienza certa d’appartenere all’elite cattolica, anche cuochi e sguatteri che, sfiniti dalla fatica, ronfavano in guisa di meditazione.
Questi monaci avevano una pietà sincera e, sapendosi dalla parte del vero dio, non potevano neppure per un istante dubitare di se stessi, identificando la loro volontà con quella divina. Di conseguenza non indietreggiavano di fronte a qualunque mezzo pur di raggiungere il loro scopo. Spietatamente. Non è forse qui, nei sotterranei, che S. Giovanni della Croce – futuro dottore della Chiesa – è marcito per un paio d’anni in odore d’eresia, perseguitato da questi fanatici della fede? Ho visto, sotto il chiostro, il ridotto dove la grande mistica, Teresa d’Avila – anch’essa dottore – ogni settimana, era costretta a confessare i suoi errori ad un confessore sospettoso.
Questo monastero non è un museo. E’ un luogo di preghiera e riflessione. Ma come possono, i miei fratelli domenicani, pregare, lavorare al di sopra di queste celle da galera abitate dai ricordi dei loro fratelli incarcerati e torturati che, sognando di vivere lo spirito del vangelo, si sono scontrati con il fanatismo orgoglioso dì una gerarchia iniqua e cinica, unica detentrice dello Spirito Santo?
Ma allora con una mentalità reazionaria, avara e atea gli ecclesiastici dimostrano di non aver capito niente del Tuo Progetto? Un bel giorno il papa, alla fine, dovrà pur dire: “Tutti questi monumenti famosi sono stati costruiti per la maggior gloria di Dio grazie al lavoro, all’intelligenza e alla capacità di artisti geniali. Ma quante lacrime e sangue sono costati? Sono il frutto di così tante sofferenze, che appartengono, per giustizia, a tutta l’umanità. Cosa ne faremo affinché gli uomini comprendano, che il tuo messaggio non ha nulla a che fare con le chiacchiere del curato? Ah! Spirito Santo, soffia un tornato per spazzare via tutti questi inutili impedimenti!”.

Perché ignoriamo, quaggiù, i tuoi amici più cari?

Yeshouah, tu lo sai: l’unica cosa che ho preso sul serio è il tuo vangelo. Allora lasciami dire quello che non riesco a mandar giù. Tutto ciò che scrivo – con passione, senza dubbio, con parzialità e molta insolenza – è per testimoniare nel nome dei miei fratelli e sorelle miserabili, i più disprezzati, al fine di rendere un po’ di giustizia al loro onore schernito, loro che sono la tua vera Chiesa.

Duemila anni fa hai fatto un gesto formidabile: a degli invitati a nozze già brilli hai offerto seicento litri di vino speciale. Così lanciavi, in fanfara, l’avventura della tua Chiesa. Ed io, che sono figlio di produttori di champagne, so apprezzare il simbolismo del tuo gesto. Ma come abbiamo seguito il tuo esempio?

La mia vita è stata così piena di incontri, scoperte, amicizie, amori, difficoltà, angosce, errori, peccati, che m’accontenterei di questa vita presente. Ma tutti quei poveri tipi che ho sfiorato, loro che hanno vissuto una vita di merda, senza speranze, senza piaceri, senza amori, come non osare immaginare che non ci sia, da qualche parte, un angolo dove tutti i “Lazzari”, alla fine, scoppieranno di gioia e d’amore?
Lo voglio credere. Sei risuscitato e non hai che un desiderio: offrirci un posto a tavola per l’eternità. Ma cerca di capirmi. Come si può pensare di godere una vita eterna allorquando lasciamo marcire i Lazzari sulla nostra porta? Come è possibile parlare di un’altra vita con Te mentre disprezziamo o, peggio, ignoriamo, quaggiù, i tuoi amici più cari? Quale insulto personale ti facciamo, quali nuovi sputi sulla faccia, quando la Chiesa non concentra le sue forze, non trascina tutti i cristiani a diffondere ogni giorno miliardi di buone novelle a tutti gli uomini, - cioè a Te stesso – che sono disperati. Un sorriso e tutto s’illumina.

Sai che il tuo grande apostolo Paolo ha la sfacciataggine di scrivere ai corinzi: “Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”?
Che cosa? Le buone azioni si giustificherebbero unicamente per la promessa d’una vita futura? Come non urlare d’indignazione davanti ad una mentalità così debole? E’ per questo che ci chiedevi di mettere i più fragili al primo posto, affinché le nostre buone azioni ci meritassero una poltrona in paradiso? Se è questa prospettiva mirabolante che autorizza i preti a stordirci con la vita eterna, io, questo, lo chiamo montatura, ignobile manipolazione delle coscienze, un ricatto alla libertà per forzarci ad entrare nelle loro elucubrazioni, che mirano  alla buona gestione sociale e anche all’angoscia esistenziale. Ed il grosso “Animale ecclesiale” s’ingrassa sempre di più. Si capisce meglio, allora, la sua connivenza con tutti i poteri…

Sogniamo di condividere la felicità con Te in cielo? Ma buon Dio! Il Tuo regno è già quaggiù, oggi, tra noi, su questa terra miserabile. Sì, tu sei terribilmente vivente in tutti i fratelli. Hai istituito la Chiesa, affinché noi diffondessimo la tua gioia nella loro vita, tanto più quando è crocifissa. Siamo già tutti salvi? Bella invenzione per tranquillizzarci con chiacchiere a buon mercato! Ma non ha mancato, purtroppo!, di distogliere noi, i benpensanti, resi indifferenti da questa credenza-certezza, da coloro che sono sprofondati nella disgrazia e, sordamente o meno, invocano la tua presenza suscettibile di passare attraverso di noi?
Come capisco il progetto di Santa Teresina di Lisieux, che non aveva nessuna voglia, giunta nell’al di là, di godere, sul suo trono verginale, i concerti gratuiti degli angeli. Si vedeva già, di spalle agli splendori celesti, china fino alla fine del mondo, al balcone del paradiso per lanciare petali di rosa e buone novelle all’anima straziata dei poveri esseri umani. Lo sapeva? La sua intenzione raggiungeva, nel suo fine ultimo, l’aspirazione buddista propria del Bodhisattva, che, per voto, rinuncia ad entrare nell’illuminazione fin tanto che la miseria devasterà la terra.

La risposta al mistero della morte non ci appartiene. E’ di dominio di tuo padre. Al contrario, risuscitarTi già qui ed ora nei nostri fratelli crocifissi, questo è di nostra competenza. Questa è la nostra responsabilità: accendere delle scintille per far nascere un sorriso sulle labbra del fratello disperato.

Dopo duemila anni il vino di Cana è diventato aceto? Cosa è successo? Per fare una sinfonia ci vuole un Mozart, ma anche degli interpreti. Ora noi, poveri tapini, siamo degli scadenti suonatori di zufolo. Non abbiamo saputo decifrare lo spartito evangelico. I nostri direttori d’orchestra non ci hanno fatto fare che delle stecche. E questo perché, dopo la tua resurrezione, abbiamo rifiutato di vederti là dove potevamo trovarti. Sì, l’ho imparato al catechismo: sei alla destra del Padre; poi nel tabernacolo; e, infine: “dove due o tre sono riuniti, io sono in mezzo a loro”. Ma abbiamo dimenticato la tua presenza essenziale, quella sulla quale contavi per trasfigurare la nostra terra così miserabile!
Queste “due o tre persone” sono la Tua presenza molto reale nella pelle di gente che noi facciamo fatica a sopportare. Il macellaio, il portinaio, il vicino con la TV a tutto volume, chi ci fa un favore o chi ci disprezza, ecc. In tali vicini c’è la tua presenza. Tu, in carne ed ossa, vivente, amorevole o affettuoso, importuno, chiacchierone, insopportabile, spregevole, fino al mio nemico, colui che mi umilia, che vuole la mia pelle, che mi uccide! Ai, ai, ai! E’ duro, duro, duro vederti in ogni uomo, in ogni avvenimento…
Sei Tu, dopo la resurrezione, che sei realmente presente in lui, in lei. Tu sei lui, Tu sei lei.
Il mattino di pasqua la Maddalena Ti riconosce dietro il grembiule di un giardiniere. I discepoli di Emmaus camminano delle ore con Te nella pelle di un vagabondo. Gli apostoli si meravigliano di trovarti a fare pic-nic sulla spiaggia di Tiberiade. Era l’inizio delle Tue avventure in mezzo a noi. Da un pezzente della via de Fagnières fino alle canaglie di Port-Moresby sei Tu, Tu a profusione, Tu eternamente presente in mezzo a noi. “Avevo fame, ero carcerato, malato… in verità vi dico: ogni volta che avete visto i più piccoli dei miei fratelli, è me che avrete incontrato”.

Tu sei l’alibi ideale…

Ti dirò di più: se nella tua Chiesa si parla di Te a tutto spiano è perché ci sei utile. Non per vivere a fondo il tuo messaggio, ma per strutturare la nostra religione, la nostra vita, i nostri accomodamenti. Tu sei l’alibi ideale, indispensabile per una religione, che non hai mai avuto l’intenzione d’inventare. Il cuore essenziale del tuo messaggio? E’ da quel pezzo che l’abbiamo dimenticato, presupponendo che l’abbiamo capito. Ognuno sente nelle proprie budella, che è di vitale importanza ignorarTi. Ed io per primo.
D’altronde, che tu sia risuscitato o morto per sempre, che differenza fa al fine di vivere il tuo messaggio? La resurrezione è un affare tra Te e Tuo padre. Al contrario, risuscitare i fratelli disperati, questo spetta a noi. Ci appartengono. A noi costruire una terra dove ciascuno possa vivere a suo agio, sapendo farsi da parte per lasciarti il posto.
Invece di segnalare la tua presenza tra noi, la Chiesa si è ingegnata a predicare un dio illusorio, un idolo. Commenta la Tua vita in Palestina in tutte le maniere, eppure ne sappiamo così poco! E di coloro che oggi sono così vivi e che sono la Tua presenza ne sappiamo ancor meno. Venuto a Roma per confermare la mia appartenenza a quelli, che intendono vivere lo spirito di Cristo, constato che il dio della mia Chiesa assomiglia ad un idolo.

Yesh, rendimi giustizia. Per lungo tempo sono stato un religioso modello. Pregavo abbondantemente: rosario, breviario, ore di meditazione supplementari. Non guardavo le donne e meritavo di andare diretto in paradiso. Senza dubbio anche oggi potrei fare una vita santa tra i miei fratelli, sotto la guida dalla campanella, al ritmo immutabile del convento. E’ quello che ho fatto fino a quando, perfettamente integrato nel sistema clericale, un evento ha sconvolto le mie buone intenzioni.

Dopo l’ordinazione mi nominano curato a Calais. Per due anni godo della mia autorevolezza, contento d’essere un “reverendo padre”, degno di stima, deciso a ricondurre i peccatori alla culla cattolica grazie alla mia benevola influenza sulle anime. Inaspettatamente io stesso vengo ricondotto ad una più sana visione della vocazione cristiana.
Un giorno, consultando la lista del catechismo, m’accorgo che un ragazzo, Foratier, troppo spesso fa a meno del mio dotto insegnamento. Consapevole del mio dovere, nella mia qualità sacerdotale, una sera vado a trovare i suoi genitori, pronto a minacciare la sanzione più pesante che le famiglie temono più di tutto: la privazione della santa comunione solenne del loro figlio. Per i miei parrocchiani è un giorno di festa, che nessuno può permettersi di perdere. Un disonore infamante. Banchetto, regali, ricordi imperituri della saga famigliare.
Mi presento, dunque, dai Foratier. Mi ricevono come il buon dio. Da anni non accolgono un prete nel loro tugurio. Il padre si premura di mandare il figlio a prendere a credito una bottiglia di bordeaux. La madre, malata, si alza per preparare la magra cena: caffè e pane. Non c’è altro in casa.
Di ritorno in convento mi rimetto a tavola e mi abbuffo. Poi mi presento dal superiore ed esplodo: “Delle due una: o mai più metterò piede nelle topaie dei poveri per mangiare quel poco che hanno e starò in convento come un  pascià oppure d’ora in avanti condividerò la loro vita”. Entro, così, in un’epoca di contestazione e di libertà.

Fallita nella pratica s’è votata alla dottrina?

Gironzolando per le strade di Roma, capita di incrociare degli ecclesiastici insigni in gran tenuta. Camminano, occhi bassi, sgranando il rosario, un sorriso dolciastro sul volto compunto. Tre di loro mi hanno visitato, per caso, nella prigione di Cochabamba, dove ho passato un anno come auto-recluso. (Ci sono andato, perché ero ossessionato da un’idea: cosa ne sanno i preti di quello che si prova in carcere?)
Il primo è un aiutante del card. Ratzinger, il secondo, segretario del cardinale della Congregazione del clero e il terzo, rettore magnifico (!) d’una università pontificia. Davanti ai miei compagni detenuti mi viene permesso di aprire il cuore, spiegando la mia ossessione. Siccome la tua Chiesa, Yeshouah, adora rimuginare e perfezionare la sua bella dogmatica, perché non proclama al più presto il Tuo vero dogma, quello che, risparmiandoci fatali ambiguità, avrebbe dovuto essere enunciato fin dall’alba del cristianesimo?
Eccolo: “Allo stesso modo che il Figlio di Dio è realmente presente nell’Eucarestia, così è realmente presente nella gente crocifissa”. Un mistero pertinente quanto gli altri e, dunque, un dogma essenziale, il più fondamentale. Nel cuore della nostra fede. Colonna vertebrale della Tua Chiesa. Quello che riassume il Tuo messaggio e che avremmo dovuto mettere al centro per cominciare a scoprire l’efficace potenza del Tuo vangelo. Con una logica conseguenza: “La missione primaria dei cristiani è di portare a compimento il lavoro del padre: risuscitare suo Figlio, che vive in tutti gli esseri disprezzabili e disprezzati”. Punto, è tutto. E adesso, al lavoro, senza accontentarci di camminare con gli occhi bassi, evitando di vedere i nostri fratelli e sorelle per non soccombere alla tentazione di amarli troppo!

Tu non avevi gli occhi in tasca. Li guardavi bene i ciechi, lebbrosi, paranoici, ladri e questo popolino, che soffre in silenzio una vita spenta, senza amore da dare o da ricevere. Guardavi incessantemente attorno a te, perché sognavi di fare di tutti quelli che incontravi degli uomini capaci di stare in piedi, scoppiettanti la gioia di vivere. Esseri felici. Ti immagini già nella loro pelle, il mattino della resurrezione, dopo aver attraversato le loro intollerabili sofferenze. Tu sarai loro. E, di fronte ai discepoli estasiati, dici: “Vi pare formidabile? Ma anche voi potete farlo! In voi c’è la forza di fare altrettanto, anzi, di fare anche di più. Basta avere nel cuore una scintilla d’amore nel guardare i fratelli infelici”. Allora perché il Tuo bel progetto oggi sembra un pallone bucato?

Perché la Chiesa ha fatto deviare il tuo progetto quando per più di 15 secoli ha avuto tutto il tempo per realizzarlo? La risposta è semplice: ha fatto quello che ha potuto, confondendo forse un po’ troppo spesso l’azione, che suggeriva allo Spirito Santo con il proprio istinto di conservazione. Il mammut fa fatica a volare come una colomba! Come poteva la barca di Pietro propagare il tuo messaggio d’amore in una perenne tempesta? Detto questo, si capisce meglio perché s’è ingegnata ad erigere le sue credenze in dogmi e ad imporli spesso con la violenza o il ricatto, invece di offrire il vangelo attraverso l’esempio vissuto. Fallita nella pratica s’è votata alla dottrina…? Ma un bambino, un uomo che piange non è qualcosa di più di una dottrina?
In un mondo in processo di unificazione il suo ruolo come forza storica sociale è stato decisivo. Nata in un universo dalle molteplici espressioni culturali, religiose e sociali, non ha mai cessato di costruire un mondo perfettamente omogeneizzato, “ortodosso”, “cattolico”. Dogmi, morale, culto, tradizioni, latino, organizzazione gerarchica, celibato, tutto doveva assicurare stabilità e perennità. Il totalitarismo cristiano è in cammino.
Fondata per offrire all’umanità intera i cammini della pace, dell’amore, della speranza, la tua Chiesa s’è sentita in dovere di fare tabula rasa delle culture, tradizioni, civiltà millenarie, accusandole d’essere tizzoni del diavolo. Perché?
Per la più bella delle cause, la Chiesa ha sradicato popoli interi, condannandoli a sofferenze spaventose. Ultimo paradosso, s’è resa complice – direttamente o no – della creazione dei terzi e quarti mondi. Totalitarismo, te l’ho detto, Yesh!
La tua Chiesa è fallita, Yesh, mon amour.
Tra gli enigmi della storia dell’umanità, dopo la scomparsa di altri ominidi, questo è uno dei maggiori e più tragici, tanta era la speranza investita in essa.

Lo sai: se sembro spietato con la mia Chiesa, non è per il piacere gratuito di criticarla. Innumerevoli sono i cristiani, che hanno sacrificato e sacrificheranno la loro vita generosamente per farti conoscere, onorare e, soprattutto, imitare. Ma io, che sono tuo prete, mi sento schiacciato, umiliato, disonorato ogni volta che incontro una persona che è rimasta delusa e beffata nella sua fiducia verso la Chiesa. Ho incrociato troppa gente  che, attraverso il Tuo messaggio ed esempio, aveva bisogno di una Chiesa autentica, capace di illuminarla, sostenerla, procedere nella sua ricerca, aprire nuovi orizzonti. Guarda che faccia s’è ridotta la tua umanità cristianizzata, sia quando si rifugia nell’infantilismo tecnico dei divertimenti di massa, sia quando si trascina in una miseria innominabile. Miseria materiale, certo. Ma spirituale ancor più spaventosa.

A Te sono attribuite le nefandezze perpetrate nel tuo nome

E proprio Tu ne sei la prima vittima. Il colmo! E’ a Te che sono attribuite tutte le nefandezze perpetrate nel tuo nome, sei tu che continui a portare il cappello… di spine. Vuoi degli esempi? Mi accontenterò di parlarti dei popoli indigeni dell’America, che i miei fratelli missionari si sono sforzati di convertire al tuo messaggio. Sai come ti considerano, oggi, certi indios? Permettimi di andare fino in fondo: ti prendono per il più matricolato dei farabutti.
Ho sentito dalla bocca dei miei indigeni tante storie spaventose. Il Kari-Siri, per esempio. Dei detenuti boliviani m’hanno chiesto cosa ne pensavo di questa leggenda, che da secoli viene trasmessa sugli altipiani andini: per comunicare con il tuo corpo durante la Messa, un francescano sarebbe stato incaricato di fabbricare le ostie con il grasso estratto dagli indigeni obesi come penitenza per i loro peccati.
In Colombia gli Aiucani non vogliono più vedere il tuo ritratto perché, dicono: “L’uomo della missione che si dice dio, ci ha rubato migliaia di ettari”.
E Gus, un anziano indigena Huron, aveva un’idea fissa: “Sono un indio e mi fa male qui, il cuore, perché Cristoforo Colombo non è stato ammazzato quando è sbarcato da noi”. Si sa: il primo gesto dei conquistatori era di piantare la tua croce, prima di fare degli indios dei nuovi crocifissi.

Nella complessità di certi riti, che si mescolano alle liturgie cattoliche, che cosa si nasconde? E’ difficile, per noi, occidentali sradicati dalle nostre sorgenti pagane, entrare nelle loro visioni religiose. Preferiamo vederci una devozione ingenua, infantile. Ma, celebrando la morte-resurrezione del dio bianco, la piangono come l’origine del loro Calvario? Risuscitano le loro stesse divinità?
Sotto la copertura “ortodossa” e molto cattolica delle nostre liturgie occidentali, gli indigeni praticano da sempre i loro culti. In Guatemala m’è capitato d’essere invitato a celebrare la messa all’aperto e di venire a sapere, più tardi, che ci trovavamo in un luogo sacro. Nella notte era stato sacrificato un galletto, magari sepolto sotto la tavola che faceva da altare. A meno che non mi abbiano offerto, durante l’agape a conclusione del culto, “la carne immolata agli idoli”, di cui parla S. Paolo. In questo modo m’introducevano nella loro “sciamania”. I Maia, che incontravo ogni giorno, vivevano intensamente tutto ciò, senza mai osare parlarmene. Ero troppo arrogante, troppo ignorante. Un abisso culturale ci separava, una deriva di civiltà larga diversi millenni. Dietro i loro sorrisini e il loro silenzio, gli indigeni  dovevano farsi gioco della nostra ingenuità e ignoranza in materia di magia, mistica e psicologia del profondo, cioè di spiritualità. Cosa avevo da offrirgli, io, se non una chincaglieria religiosa, i miei sacramenti all’acqua santa, che hanno perso l’essenziale del loro simbolismo originario e i miei canti insignificanti? Niente più dei miei fratelli cappuccini della Papuasia… se non il loro commercio scolastico, le loro ricette di hamburger e lezioni di tennis.

Siamo gli affossatori di antiche civiltà

Invece di distruggere i loro monumenti, bruciare la fantastica biblioteca maya di Merida, deridere le loro pratiche, demonizzandole senza tentare di capirle… Ah! di quale visione del mondo ci avrebbero arricchito questi grandi “pagani” se solo avessimo cercato di entrare nella loro anima da fratelli attenti ai loro gesti quotidiani sempre carichi di simbolismo!
Ma i miei fratelli in religione non hanno, accecati dalla loro “verità”, non potevano inventare etnologia ed antropologia, come aveva intuito un Bartolomeo de las Casas e alcuni suoi confratelli. Queste materie di ascolto attento e di partecipazione attiva non hanno potuto svilupparsi se non quando, qualche secolo più tardi, si sono affrancati dalla dogmatica cattolica. Troppo tardi…
Siamo stati gli affossatori di antiche civiltà. La civiltà cristiana ha generato una civiltà agli antipodi dell’immaginario sciamanico in nome dell’avvento del tuo regno, che ha creduto realizzabile sulla terra senza, pertanto, dopo duemila anni, riuscire ad edificarlo… è il meno che si possa dire.
Perché, dunque, la dinamica demolitrice avrebbe dovuto fermarsi all’eliminazione del grosso della paganità? Trascinata dallo stesso slancio si è, a sua volta, poco a poco, rivoltata contro i suoi promotori e s’è messa a rosicchiare la stessa cristianità, a mangiarla, forse, un giorno, fino al midollo…
Ecco perché la lista della sostanza mitica e rituale cristiana si è allungata nella misura che questa civiltà, giunta alla maturità, dava alla luce un mondo moderno ancor più radicale nel suo sradicamento razionalista, dimenticandosi sempre più di quella realtà che l’ha nutrita nei primi secoli.
Non si può dire che la nostra civiltà, così preoccupata per la bio-diversità, si preoccupi troppo di preservare la “mito-diversità”, il “politeismo dell’anima”, questo humus millenario dal quale i nostri “fiori” egotisti e individualisti d’oggi traggono la loro esistenza, sostanza e sussistenza.
Tenendo conto di questa dinamica sradicatrice, non stupisce che oggi sentiamo la necessità vitale di cercare di ri-radicarci per tentare di incantare il mondo. E’ come un bisogno oscuro ma imperioso di ritrovare le nostre radici. La società-laico-tecnico-economico-scientifica ha fatto di noi degli orfani, come alberi senza radici, nomadizzati, orizzontalizzati, per meglio proiettarci nei nuovi eccessi clanico-universalisti molto più sradicatori ancora: razionalizz-azione, nazionalizz-azione, modernizz-azione, civilizz-azione, tecnicizz-azione, colonizz-azione, omogeneizz-azione, sempre più in accelerazione nel processo di globalizzazione: internazionalizz-azione, occidentalizz-azione, americanizz-azione, disneylandizz-azione, mondializz-azione, ecc.

La “sciamania” – questa religione universale, esplosa in mille varianti locali e autoctone – è servita come fertile humus per la mietitura occidentale: la cristianità, prima di tutto, poi  i suoi avatar laici, attribuendosi la missione d’imporre una “religione” razionalista, economicista e tecnicista a tutti i popoli del mondo, in una irresponsabile mescolanza di buona volontà arrogante. Rimane da capire, perché la Chiesa abbia voluto voltare le spalle a delle pratiche considerate come appartenenti al regno del diavolo e della morte, senza neppure degnarsi di conoscerle.

Certamente, rigettando tutte le espressioni ancestrali troppo istintive, pulsionali in beneficio di quelle della ragione e della volontà, ha creduto di fare del bene. Le pratiche della stregoneria, i culti a Baal e a Moloch con i loro sacrifici umani non erano privi di eccessi spaventosi. Sotto l’influenza del vangelo la Chiesa imperiale ha tentato di ridurre, cioè di sopprimere ingenuamente, dalla bestia umana, in tutto il bacino mediterraneo e in Europa, la violenza e l’irrazionale. E oramai sono i suoi frutti laici che, in occidente, proseguono questo impegno attraverso l’ONU, le ONG, ecc. in seno al processo globale di occidentalizzazione del mondo.

Ma “chi vuol fare l’angelo, fa la bestia”. La cristianità ha buttato via il bambino divino – il “puer aeternus” , questo sottofondo ancestrale, questa parte dell’anima umana, che ci lega indissolubilmente a tutti e a ciascuno, al mondo animale, al cosmo. Al contrario di Gandhi e di altri asceti, che hanno cercato di canalizzare le loro energie “animali” in una lotta impietosa contro se stessi, i cristiani, poco a poco, hanno dirottato la loro violenza, lanciandosi nell’efficienza razionale e tecnicista delle crociate, denunciando i popoli-vittime come civiltà sataniche.

Non c’è da stupire, allora, che dopo secoli di tale regime totalitario, Maya, Papuasi, Indiani e tutti gli altri popoli, ognuno alla sua maniera, dopo aver apportato all’umanità il suo contributo di ricchezze – e anche di follie –, finiscono per diventare degli “eco-musei per turisti”, dei generatori di “riserve di biosfera” mentre la maggior parte sprofonda lentamente in una nuova forma di quarto mondo. Una dinamica globale, che paghiamo e facciamo pagare a caro prezzo.

Gli umili “servitori della madre-terra”

I popoli autoctoni si ritenevano gli umili “servitori della madre-terra” e  manifestavano verso di essa una devozione timorosa, essa che crea e che uccide e un  giorno li ringoierà. Ho visto spesso degli indigeni arrivare sul campo di buon mattino, sostare, prendere in mano rispettosamente della terra e rivolgerle una preghiera. Chiedevano il permesso di ferirla con la zappa per poter nutrire la loro famiglia. In ogni circostanza festosa ad ogni brindisi si versa in terra un goccio di bevanda alcolica in segno di riconoscenza alla “pacha-mama”, perché anche essa goda della gioia dei mortali.

Non è certo con questa mentalità che la “modernità” invade le campagne, si lancia nell’agricoltura industriale a colpi di fertilizzanti e di organismi geneticamente modificati ed esporta il suo surplus sotto forma di arma economica! Tutto al contrario, dunque, la religione patriarcale, rompendo questo tabù “geo-materno”, ha convinto gli occidentali a considerarsi i “padroni assoluti” della terra. Ecco perché, ciò che nessun altra civiltà avrebbe mai pensato né osato, la cristianità l’ha realizzato. Essa non si sforza, come i nostri antenati, di preservare l’armonia e l’equilibrio dell’universo ma cerca di scoprire le sue leggi per assoggettarlo sempre di più. Grazie a ciò la tecnica supplisce progressivamente alla natura. Prolunga la mano dell’uomo, la sua intelligenza, creando le protesi indispensabili per favorire le sue comodità domestiche ed estenderle a tutto il pianeta.

La finalità di tutto ciò? Sempre la stessa: tutelarsi dalla morte intollerabile ma rovesciandone i mezzi e le rappresentazioni. “Lo scandalo della morte”! esclamano in coro preti, pastori e rabbini durante un colloquio inter-religioso, mentre i bonzi buddisti sorridono in silenzio. La più eloquente fotografia del fossato tra oriente ed occidente.

Noi abbiamo riformulato la natura con la tecno-natura. In questo modo non è solo la natura a farne le spese con il disprezzo “cristiano” verso gli animali, i compaesani, la terra intera. Si tratta, in modo più profondo, del nostro sradicamento. Insomma, questa dinamica cristiana divenuta folle si può riassumere così: l’occidente attecchisce nella sua velocità di sradicamento…
Ai nostri antepassati “pagani” è sembrato di trovare nel più profondo del loro essere un equilibrio, un’armonia, percependo nel loro intimo le sorgenti dalle quali la Vita fa scaturire le sue energie e il suo senso. Proiettando questa esperienza fuori di sé, hanno stabilito delle reti di consonanza, dando un senso anche al mondo, poetizzandolo. Tutto ciò, nonostante i suoi limiti, in mancanza di meglio, ha aiutato miliardi di esseri umani a vivere e a morire.
Gli apporti ed i sincretismi della cristianità propongono qualche cosa di meglio?
Essi squalificano, poco a poco, tutti gli antichi aggiustamenti del mondo, gettando i loro ultimi detentori nella disperazione fino a creare lo stato del quarto-mondo.

Oggigiorno diversi contemporanei si rendono conto, confusamente, fino a che punto abbiamo sbagliato strada, senza saper trovare quella giusta. Gli uni ricercano nelle religioni orientali, gli altri ingoiano pillole chimiche o mediatiche per uccidere l’angoscia metafisica, che gli opprime la gola o la pancia spesso troppo piena di grasso.

Quanto tempo bisognerà attendere per renderci conto, che non abbiamo ancora vissuto la vocazione umana?

Il vero problema è lo stato esistenziale dell’uomo. Un bel giorno questa “grande scimmia” ha scoperto, grazie allo sviluppo dei lobi frontali, di essere un essere votato, presto o tardi, alla morte. Una realtà insopportabile. Allora ha cercato di vincere il “fato” con i mezzi di bordo, inventando pratiche esplorative di questo “mondo-altro” prima di emigrarci definitivamente, senza avere altro bagaglio a disposizione se non il suo immaginario: culto e dialogo con i defunti, tombe e mausolei, re-incarnazione, ecc.
Arrivando in ritardo, la cristianità ha preteso di essere rivoluzionaria, di essere “salutare” con un Dio incarnato e sofferente, morto e risorto, offrendo una vita eterna con corpo ed anima finalmente riconciliati. In materia soteriologica è il massimo del massimo: l’assicurazione-della-sopravvivenza.

Attraverso i preti, il culto dei santi e dei luoghi sacri (de-paganizzati), le apparizioni della Vergine, i discendenti di S. Pietro sono andati verso un nuovo sincretismo, dal quale derivano ancora ai nostri giorni queste liturgie romane, spagnolesche, latino-americane impregnate di folclore e di semi-paganesimo. Ciò consente ai protestanti di considerare i cattolici come dei pagani, degli idolatri. Ma un cattolico, per quanto poco cosciente delle debolezze della sua religione, sa bene che questa è una delle ragioni che ha consentito la sua sopravvivenza. E, per quanto paradossale, senza la riforma protestante, forse l’umanità non si sarebbe sradicata così in fretta dalle sue sorgenti arcaiche e profonde per adorare questi idoli moderni della tecno-scienza e della borsa.

Il protestantesimo: “sola fides”

Il protestantesimo, con le sue riforme radicali, s’è privato dei sacri intermediari che facevano da paravento al terribile Yavéh-Gorgone, lasciando i suoi adepti a se stessi sotto la dominazione diretta della Trascendenza: “La salvezza attraverso la sola fede”, indipendentemente dalle azioni, dalla ragione. Di fronte all’angoscia metafisica più profonda degli uomini, questa solitudine, senza il ricorso a degli intercessori, è assai spaventosa. Come non porsi la domanda cruciale, all’epoca, di sapere se si è sulla lista degli eletti? Siccome la risposta non si avrà che alle porte dell’eternità, che fare in attesa di scoprire la propria elezione o dannazione?

Lo psicanalista Jung ha messo in evidenza il fatale trauma psicologico nell’anima dei suoi correligionari, lui che apparteneva ad una famiglia di pastori. La sua vita e la sua opera sono il riflesso e il frutto dell’ambiguità della sua religione d’origine, lui che, poco a poco, s’è avvicinato al cattolicesimo, considerandolo un male minore.
Allora i protestanti non hanno cessato di inventare nuove forme di intermediari, che permettessero di conciliarsi le grazie di un dio inesorabile. E la miglior soluzione sembra essere stata quella di… lavorare! Il sacrosanto lavoro diventa il dovere di una società basata sull’attivismo diversivo (nel senso di “dirottamento” dalle ultime domande esistenziali).
La nuova religione: lavoro=denaro=benedizione divina

Il lavoro – con relativo stipendio, il denaro – come prova delle benedizioni divine, sembra aver giocato un ruolo straordinario. Grazie a ciò la folle dinamica globale (post)cristiana di trasformazione tecno-naturale del mondo ha trovato nei fratelli protestanti degli agenti molto devoti. Ecco perché i paesi anglosassoni hanno sviluppato per primi la civiltà industriale liberale, alla quale hanno dovuto adattarsi, più o meno controvoglia, tutte le altre per pura necessità di competizione e di sopravvivenza.
A colpo sicuro: la prosperità non può non essere che il segno di elezione da parte del proprio dio! E’ necessario, quindi, forzare “la mano di Dio”, Lui che ha mani troppo bianche da non averne affatto. I culti e le sette americane sparse nel mondo, sono lì a confermarlo: essere ricco e in buona salute, ecco la miglior prova della propria elezione. Questo funziona, ti prego di crederlo, mio Yeshouah!

Nel paganesimo, religione primaria e universale pre-cristiana, era il transe o il rito e non il lavoro, che innescava il legame con le divinità. Conscio della sua debolezza, spaventato dal mondo naturale ed animale – fuoco, fulmini, tigri, leoni, ecc. – l’uomo primitivo si affidava alla loro protezione, divinizzandoli.
La chiesa ha rifiutato questo bestiario inquietante, conservando solo un agnello innocente, al quale l’apocalisse restituisce la potenza degli antichi campioni sciamanici, consegnandogli i destini del mondo. Questo non impedisce che, in attesa dell’ultimo giudizio, gli uomini si condannino al lavoro quotidiano. Questa è la nuova religione.

Si può forse sostenere che, se fin dai primi secoli la chiesa cattolica – conforme la dottrina evangelica – avesse fatto dei piccoli e degli umili la colonna vertebrale del suo insegnamento e, prima di tutto, della sua pratica, avrebbe potuto risparmiare queste perversioni? Non è certo. Ma avrebbe potuto resistere e, nel vero amore, imporsi alla concorrenza delle altre religioni, alle invasioni barbariche, all’humus mitico multi-millenario senza essere soffocata nel suo embrione? Sembra che ogni religione troppo pura e radicale non può che sparire…
Checché ne sia, sarebbe importante capire in quale maniera le idee cristiane hanno potuto, - spesso a loro insaputa – generare un pianeta così folle.


La costruzione di abbazie, cattedrali e città costava parecchio. Il bisogno di denaro si faceva sempre più imperativo e ben presto diventava la molla indispensabile della vita sociale: il capitalismo trovava i suoi titoli nobiliari nella religione cristiana…
La tua Chiesa ha nominato tua madre, la piccola Myriam, Teotokos, cioè “fabbrica di Dio”. Ma ha trascurato di vedere (e di vivere!) come i poveri potrebbero “fabbricare” Dio attraverso la tua incarnazione in se stessi. Ecco come essa, indirettamente, ha fatto loro un torto incommensurabile.

Gli antichi adoravano l’oro perché, metallo degli dei, solare ed incorruttibile, era il frutto ultimo di un’alchimia generata dalle viscere della grande Dea-Madre-Terra. Ne rivestivano le loro divinità. Ma, come la morte, il denaro ha conosciuto un testa-coda spaventoso.

Solo la Terra-Madre era feconda…

In altri tempi il buon cristiano doveva lavorare molto per accumulare dell’oro, che dormiva nascosto sotto il materasso. Oggi è il contrario. L’ideale è fare una vita da sogno mentre il proprio denaro – docile schiavo, che lavora giorno e notte in un vivaio dalle dimensioni planetarie – si moltiplica anche nel sonno. Perché con il prestito ad interesse, si moltiplica da solo. Ora, nella sciamania, solo la Terra-Madre, Grande Dea essa stessa o semplice opera di un unico dio, aveva la legittimità di un tale miracolo di fecondità, attraverso ogni femmina, ogni donna. Se Babilonia s’è abbandonata all’usura, la legge di Mosè era senza ambiguità. Ma anche i greci ed altre civiltà condividevano lo stesso atteggiamento di prudente diffidenza.
Nel medioevo è caduto ogni tabù. Ma non accusiamo subito la Chiesa di lassismo…
I sovrani pontefici si sono scontrati con un problema insolubile. Che corona dovevano portare? Di spine, come la tua, o di alloro come eredità di un certo cesaro-papismo? I discendenti di S. Pietro si sono lasciati imbarcare nel sistema romano-papale. Lo so, è facile accusare gli altri… Io cosa avrei fatto? Ognuno fa quello che  può… ma Tu, Yesh, tu non avevi messo i puntini sulle “i”, dicendo: “Non potete servire Dio ed il denaro. O disprezzate l’uno e amate l’altro oppure prediligete l’uno e disprezzate l’altro”? Un bel conflitto esistenziale, sia personale, che sociale e civile, con cui ti sei complicato la vita…

Allora i tuoi papi, dalle mani bianche tutte teoriche, hanno lasciato il campo libero a Genova e Venezia, inviando le loro pecore a prostituirsi dallo spregevole Mammona. E così la Chiesa ha messo il dito nel grande ingranaggio infernale, andando un po’ più lontano delle civiltà precedenti.
Cosa è successo?
Qualche tappa a grandi linee.
Quando nel XI secolo debuttano le crociate, le ricchezze e la potenza dei nostri fratelli ortodossi “scismatici” e dei nostri cugini infedeli mussulmani “abramici”, cominciano a diventare un problema. Poi nel secolo XVI, instaurandosi il saccheggio generalizzato del pianeta, le fantastiche risorse naturali dei “pagani” d’America, Africa ed Asia, cominciano a migrare verso la cristianissima Europa. I re fanno a gara nell’elargire ai pontefici regali munifici per pacificare le loro coscienze e ottenere sante benedizioni. Tutte queste favolose ricchezze non spettano, a pieno diritto, ai proprietari del vero Dio, cioè del Mio dio?
Checché se ne dica, bisognava che nascesse e prosperasse la zizzania quando, alla fine del medioevo, per compiere la sua divina missione – presa tra due tenaglie, il pericolo islamico dalla Spagna e dai Balcanici – la tua Chiesa s’è sentita obbligata, per una giusta causa, di infrangere il precetto tradizionale. Tuttavia, presi da un ultimo scrupolo, i tuoi incoerenti adoratori si sono ben guardati dal sporcarsi le dita e gli anelli…
Una volta che l’impero romano diventa ufficialmente cristiano lo spinoso problema del denaro trova un’elegante soluzione. L’occasione non è forse troppo bella per fare degli ebrei “deicidi” i manipolatori delle offerte cattoliche, i banchieri naturalmente “mammoneschi” di una Chiesa celestialmente bianca e verginale? Non è tutto. I mucchi d’oro strappati ai templi e palazzi dei popoli vinti, capolavori meravigliosi che alimentavano il loro immaginario e incarnavano la carne dei loro dei, sai che cosa sono diventati? Per rendere ogni onore ed ogni gloria al proprio dio, la Chiesa ed i principi cristiani li hanno fatti fondere, colare e trasformare in volgari forme geometriche: parallelepipedi rettangolari, mattoni meschini senza grazia né bellezza. Impilati nelle cantine blindate di tutti i Fort-Knox del globo, sono protetti giorno e notte da truppe armate di sofisticati sistemi elettronici anti-furto. Nessuno può avvicinarsi, nessuno può toccarli (come il Sancta Santorum?). Ancor meno contemplarli. Invisibili! Non è una bella fotografia del processo di “disincanto del mondo” generato dalla cristianità?
Queste riserve di lingotti, indispensabili per garantire la sopravvivenza della nostra civiltà, sono stati incaricati di assicurare la credibilità del denaro grazie al quale viviamo il nostro quotidiano. Un denaro “fiduciario”: letteralmente i tesori degli antichi fusi in questi stampi di “Cesare” sono diventati il nostro più bel atto di fede!
La Chiesa, guardiana della “Grande Alternativa”, “o Dio o Mammona”, rompendo il millenario tabù del prestito ad interesse, ha aperto la strada al capitalismo ed ai suoi effetti perversi. Questa folle dinamica cristiana ha portato all’attuale e crescente mostruosa-enorme-gigantesca sventura: ogni giorno più di 1500 miliardi di dollari vengono scambiati nel mondo, molto al di sopra della testa dei terzi e quarti mondi!

E tutto ciò non sembra arrestarsi: secondo il rapporto dell’Organizzazione mondiale del Commercio, un miliardo di “sopravviventi”, nel giro di 25 anni, vedrà cadere del 20% il suo livello di vita. “Felice Giubileo cristiano a tutti…!”.

Tu, che sognavi, di fatto, la tua incarnazione nei poveri, offrendo loro il primo posto; tu che hai detto: “I poveri li avrete sempre con voi”, per ricordarci che non eravamo ancora pronti a starcene in panciolle… avresti immaginato anche per un solo istante, che la tua Chiesa, disprezzando sia gli antichi saggi consigli sia la tua alternativa di fuoco, “o dio o il denaro”, fondendosi con l’impero romano, sarebbe stata all’origine della cretinizzazione disney-hooliwoodiana e della terza e quarta mondializzazione galoppante del pianeta? Il Regno che tu sognavi s’è trasformato in una fabbrica di buoi-birra-TV e di sottoproletari a miliardi di esemplari. Tombola!

Il giovane ricco

Ti confido, Yesh, che bisogna essere presi da una sacra dose di dolce follia e di ingenuità per prendere alla lettera alcune tue dichiarazioni così esplosive.
Per esempio il tuo incontro con il giovane ricco, il modello tipico dei cattolici, che frequentano la cappella delle università, le parrocchie, i pellegrinaggi.
Questo privilegiato ne ha abbastanza di corsi di catechismo, perché indovina che il tuo messaggio va al di là dei comandamenti di Mosè e delle prescrizioni minimali della sua religione. Alla fine della conversazione Tu getti l’esca. Gli strizzi l’occhio e lanci: “Vuoi seguirmi per sentirti a tuo agio nei tuoi sandali? E’ semplice: sbarazzati delle tue ricchezze. Vendi i tuoi DVD, videogiochi, telefonino, roller, ecc. e dai il denaro a chi è nel bisogno. Ed io ti garantisco il risultato. Ci stai?”.
Il nostro papa Giovanni Paolo II – lui, che ama tanto i giovani – l’ha commentato
in lungo ed in largo nell’enciclica Veritatis Splendor. (I francesi hanno svaligiato le librerie: 100.000 esemplari in dieci giorni! La prova che cercano disperatamente un “qualcosa” per uscire dalla depressione). In 40 pagine racconta, spiega, commenta questo incontro. Quando arriva al passaggio-chiave: “Da tutti i tuoi beni ai poveri”, cosa ci dice il tuo degno rappresentante? Malgrado la sua età salta la frase a piè pari. No comment! Io resto sbalordito, non capisco. Allora ne ho parlato al padre generale dei cappuccini, mio superiore, un italiano molto simpatico. Mi guarda con aria beffarda e dolcemente burlona: “Benoit! Immagina che il papa intenda costruire la morale cristiana su questa frase. Ma allora è tutto il sistema che bisognerebbe sconvolgere!”. Merda…!
Per quanto tempo accarezzeremo il sistema, il grosso animale? La tua “Bomba” non  aspetta da troppo tempo una folla di buone volontà per detonare un grande cambiamento? I gerarchi non sanno, non sapranno mai indicarci il cammino. Se non per perderti di vista. Quando non è per tradirti! La tua Chiesa ha fottuto tutta la terra… perché non ha preso la Tua parola come oro colato…

Il nuovo Catechismo ha riunito le verità da credere e da predicare in 2863 articoli, 675 pagine, 1300 grammi! Un magnifico best-seller. Nel 1993 i francesi, in un anno, hanno acquistato un milione di copie.
Sintesi straordinaria che riprende e commenta il “Credo” elaborato 16 secoli fa al concilio di Nicea-Costantinopoli. Attraverso i Dieci Comandamenti, i sette sacramenti, ecc. traspare la teologia e la morale elaborate nei primi secoli dai padri della Chiesa e fissati da Tommaso d’Aquino nel XIII secolo. Questi ha attinto da Aristotele, che quattro secoli prima di Te, credeva di aver colto i segreti della natura e del pensiero. E’ su queste basi che i preti hanno la missione d’illuminare e dirigere i fedeli, di provocare in loro un entusiasmo travolgente, come se noi moderni fossimo contemporanei degli ateniesi, cittadini dell’impero romano, servi dei cavalieri medioevali. E sempre con le stesse parole trite e ritrite. Pare di sognare. Di fatto la Chiesa vive in un mondo che non esiste più. Paradossalmente è stata lei e le sue avventure secolari, che hanno contribuito a distruggerlo. E’ per questo che non bisogna piangere sui seminari vuoti né sulla mancanza di preti.




I preti: sciamani evangelici o funzionari?

Delegati tra il cielo e la terra, i preti erano, per vocazione e tradizione, nati dagli sciamani, questi esperti del “viaggio” fino al mondo degli spiriti, degli antenati e degli dei. Lungo i millenni si sono differenziati: gli uni nel sapere (interpretazione dei sogni, ecc.) gli altri nell’esperienza (transe di guarigione, divinazione, dialogo con i morti, fortuna nella caccia e nella guerra). La stessa cosa nella Chiesa: preti/d’esperienza, monaci e religiosi, appartati nei conventi a custodire il mistero nel silenzio; preti/del sapere, unicamente maschi, occupano la parte sociale più elevata. Per delle ragioni oscure, si sono sforzati di tagliare radicalmente i legami, che li associavano ai preti-sciamani delle altre religioni, definendoli come tizzoni dell’inferno. Da tempo hanno perso le loro radici sacre, dimenticando ciò che li univa ad essi.
I gerarchi avevano le loro buone ragioni: una divinità troppo selvaggia, nascosta nel fondo di se stessi come nelle cavità delle foreste oscure, non era più accettabile anche per certi eccessi inaccettabili. C’era bisogno di denigrare in blocco questo tipo di vita “primaria”, disprezzando le radici più vitali della specie umana? Non si poteva condannare le pratiche folli e allo stesso tempo cogliere la loro sorgente interiore in ciò che aveva in comune con il vangelo? Come preservare la sola legittimità possibile del sacerdote, essere un intermediario tra Dio e gli uomini?


Se oggi non sono altro – la maggior parte – che degli amministratori di un enorme macchinario, non è meglio che spariscano? Che cosa di più normale se non sono più alla vertiginosa altezza della loro vocazione trascendente? Questi preti aggiornati sono forse i tuoi testimoni-servitori?

Si ha l’impressione che la tua Chiesa sia una specie di ONG umanitaria internazionale di tipo conservatore, per cui il prete non è altro che un “agente sociale”. “Lavorare nel sociale” diventa l’obiettivo primario ed esclusivo. Come se il sociale dovesse oscurare la carità… Yesh, tra me e te, lungi dall’uguagliare i “ristoranti del cuore”, l’operetta buffa delle messe domenicali non è forse una caricatura della condivisione conviviale, che hai istituito dopo la lavanda dei piedi?
Difficile, in queste condizioni, “accendere il fuoco”!

Il sociale, pertanto, è tutto quello che siamo capaci di praticare… e male! Per natura, il sociale, è vero, ha bisogno di Dio e della Chiesa, ma come idoli, come schermo alla divinità, alla trascendenza, al faccia a faccia! Non ha importanza quale sia lo specialista in scienze umane - giurista, educatore, assistente sociale, etnologo, antropologo, tutti frutti della cristianità, laicizzati, autonomi, professionalizzati -, che rimpiazza i preti in questa incessante e crescente differenziazione della società. L’aureola mediatica di una semplice volontaria dei “Medici della terra”, che fa quello che può in un campo di rifugiati, non vale forse un milione di quaresime dal pulpito?
Insomma, in questi due millenni, l’aver voluto trasformare il mondo, si è risolto nel ricalcare le orme degli imperatori, che pretendevano rivestire la legge del più forte con una pelle d’agnello; poi è stata la volta dei papi che hanno inaugurato cattedrali e crociate; e, più recentemente, degli ideologi del progresso e della tecnica. Lavorare per la trasformazione del mondo innesca degli effetti di rinculo contro l’istituzione ispiratrice. Ecco ciò che ha fatto dire a certi antropologi: “Il cristianesimo è la religione dell’uscita dalla religione”. Guardando il suo percorso storico, niente sembra più vero.
Quindi, grazie a Dio, negli eremi, nel deserto, nei quartieri popolari o in prigione, in un ospedale psichiatrico, nei monasteri, restano i contemplativi, autentici guaritori,  tuffatori nel profondo, gli sciamani evangelici, tutti coloro che sono preoccupati, prima di tutto, di scoprirTi in se stessi, Yeshouah, e di servirti nella povertà amorosa dei nostri fratelli falliti. Essi hanno scoperto, che la sola trasformazione necessaria del mondo non può mai seguire la via della forza brutale, la soddisfazione esclusiva degli istinti e dell’ego, poiché essa passa attraverso la metamorfosi di se stessi e, sul Tuo esempio, la confraternizzazione con gli esclusi.

Ruanda

Yesh, permettimi di raccontarti uno dei fatti più penosi, che pesa sul cuore come un macigno.
Siamo al 10 maggio 1994. Cardinali, arcivescovi, vescovi, teologi di tutta l’Africa convengono a Roma attorno al Sovrano Pontefice per una lunga sessione sinodale. Il tema è di estrema importanza. Tu sai che l’Africa è il più miserabile dei continenti. Il nostro sistema coloniale, croce e spada, ha rovinato le sue opportunità. E’ dunque per esso che tutti gli sforzi dell’immaginazione devono essere messi in atto per restituire al continente le sue speranze. Tema: “All’alba del XXI secolo, come annunciare la buona novella al popolo africano?”.

Alla vigilia giunge una notizia spaventosa. In Ruanda, la nazione più cattolica dell’Africa, è in corso un orribile massacro: 5000, forse 10000 persone vengono selvaggiamente assassinate. Dei fratelli cattolici si uccidono tra loro. Mentre i loro pastori proseguono nelle discussioni, dopo aver invocato con fervore lo Spirito Santo – il solo in grado di ispirare le soluzioni più efficaci –, le notizie sono ogni giorno più allarmanti: 100.000, 300.000, 500.000… un milione di persone cadono sotto la tortura e il macete dei loro fratelli.

Un bambino qualunque, che conosce il catechismo, avrebbe immediatamente trovato la soluzione miracolosa attraverso la parabola del buon samaritano. Senza dubbio – pensa il ragazzino – il papa conosce molto bene questa storia. Dunque affitterà un volo charter, si precipiterà in Ruanda accompagnato da tutti i pastori africani, uscirà dall’aereo, alzerà le braccia al cielo ed esclamerà: “Mai più! ragazzi miei, avete perso la testa. Rileggete il vangelo. Il vostro comportamento non ha niente a che fare con l’insegnamento del catechismo”. Questa sarà la notizia più bella che ci possa essere. Immagina lo shock, la vergogna dei carnefici, la gioia e la riconoscenza delle vittime e i macete sotterrati, i ruandesi che cadono gli uni nelle braccia degli altri… Senza parlare dell’impatto su tutti i popoli del mondo…

Che cosa è successo in realtà?
Dopo aver biascicato qualche preghiera fatta per i trapassati, “Bla. Bla, bla…”, i venerandi prelati hanno proseguito con le loro chiacchiere. Programmi meravigliosi per il prossimo secolo, ricerca di metodi efficaci, emendamenti, budget, votazioni, decisioni all’unanimità, consensi, congratulazioni, sorrisi di compiacimento. La buona novella sarà annunciata ai cadaveri in putrefazione e alle miriadi di mosche…

La satira di ieri e di oggi

In altri tempi, le civiltà antiche avevano orecchi attenti per ascoltare i pazzi, i deboli di mente, i profeti, i quali, senza complessi, denunciavano le tare dei loro governanti e le eclatanti anomalie della società. Se si intende ancora ignorare le loro radici pagano-sciamaniche, si dovrà ammettere che la “festa degli innocenti” ed i carnevali erano, per lo meno, degli sfoghi con i quali gli oppressi, gli scontenti ed i bambini stessi potevano in tutta libertà esprimere le loro rivendicazioni ed aspirazioni, denunciando le ingiustizie dei governanti, genitori, autorità. Arrivavano al punto di occupare gli uffici dei “Grandi”, fossero anche i governatori, sindaci, vescovi o curati del posto.
I prìncipi intelligenti trovavano in questi sfoghi materiale serio per correggere i loro errori ed eliminare gli abusi più palesi. Ma i cortigiani servili odiavano questi eccessi. Avevano il panico che il più piccolo sconvolgimento potesse nuocere ai loro privilegi. Ecco perché abbindolavano il loro re con adulazioni mielose, li seppellivano nell’oro e nei marmi dei palazzi, e, quando aveva voglia di visitare i sudditi, i servitori ossequienti si affrettavano ad eliminare i tuguri lungo il passaggio del corteo, costruendo villaggi modello in un batter d’occhio, vestivano a nuovo i mendicanti, imprigionavano i recalcitranti e facevano cantare le glorie del governante.
Oggigiorno i giornali satirici hanno preso il posto della “Festa dei pazzi”. Con humour, satira, caricatura analizzano le aberrazioni che corrodono la nostra società. Sotto le spoglie dei buffoni di corte, questi giornalisti sono, di fatto, dei politici sopraffini.
Il grosso animale romano non sfugge, ovvio, alla loro satira. I preti trarrebbero un gran profitto per le loro prediche se prendessero spunto dalle caricature sul vaticano.
Roma, “città eterna”, capitale della “Chiesa dei poveri”! Città pagano-cristiana con i suoi 400 luoghi di culto. “Vaticanic Park”?
La cultura di morte che il papa denuncia con tanto vigore, rendendone responsabile lo spirito materialista americano, non bisogna dimenticare che è stata Roma ad esportarlo in America con Cristoforo Colombo ed i Conquistadores con l’etnocidio-genocidio…
Roma, questa Babilonia, sopravviverà ancora a lungo alle sue credenze e pratiche illusorie, dopo le celebrazioni di questo irrisorio Giubileo, paganesimo trionfalista, che rifiuta di riconoscersi tale. Siamo fatti in modo che ci conviene credere in qualche cosa, in qualche dio… fino al giorno in cui, Yeshouah-Salvatore, ti incontreremo agli estremi confini dell’assurdità.


I poveri, questi sconosciuti

Dopo l’esperienza di Calais, i superiori m’hanno lasciato la briglia sciolta sul collo. Grazie a ciò ho potuto partire alla ricerca del mio compagno della via de Fagnières come alla ricerca di un tesoro. In fondo all’anima, un’angoscia, un dubbio, un’inquietudine, ma anche una gioia profonda e una speranza folle. Un giorno lo troverò. Avrei preferito la quiete conventuale… Invece ho conosciuto la solitudine. Non in maniera eroica. A volte ho vissuto da borghese, da persona rispettabile, da religioso d’operetta. Con i benpensanti, quelli che mi chiamavano rispettosamente “Reverendo Padre”, non ero me stesso. Nel cascame delle convenzioni, tacevo, bollivo, come un vulcano che, sotto sotto, aspetta la sua ora.

Fin dal primo anno di vagabondaggio mi sono reso conto fino a che punto la mia Chiesa viveva, malgrado il suo bel predicare, nell’ignoranza del mondo degli esclusi. Mi ero fatto ingaggiare nel movimento “Aiuto per ogni disgrazia” fondato da p. Joseph Wresinski. Abitavo nella carcassa di un camion, ospite della baraccopoli di Noisy-le-Grand. Ero felice. Avevo la sensazione di vivere la vita di S. Francesco. Ne parlavo con entusiasmo ai miei confratelli e li immaginavo disertori dei conventi per condividere la vita di quelli che nessuno prende in considerazione se non per disprezzarli. Mi accorsi ben presto che ero l’unico della mia specie a condividere ciò che, tuttavia, mi sembrava essenziale al cammino della tua Chiesa, Yeshouah. Ne parlavo spesso con p. Joseph. Scuoteva le spalle. “Cosa stai a masturbarti la coscienza per una Chiesa, che ci metterà chissà quanto tempo per scoprire ciò che noi viviamo insieme? Ma io, tu, molti volontari, loro, noi siamo la vera Chiesa! Fai il tuo lavoro, è tutto quello che ti chiedo!”. Aggiungeva: “Io ho l’anima di un curato di campagna. I problemi della fede? Non mi sono mai posto la domanda. Sono figlio di un minatore di carbone. Nel papa e nei vescovi, anche se sono limitati, ho una fiducia totale. Lo Spirito Santo agisce al loro posto…”.
Non sono mai riuscito a capire questo linguaggio.

La gerarchia non ama molto coloro che, tra i suoi membri, cercano di condividere la vita con i più poveri. P. Joseph ne sapeva qualche cosa, lui che fino alla fine è stato considerato dai suoi pari un personaggio sospetto.
E madre Teresa? E l’abbé Pierre? E suor Emmanuelle? Prima di riuscire e, quindi, di essere incensati, pre-canonizzati, la prima ha dovuto lasciare l’abito religioso e la congregazione per poter consacrarsi ai paria; il secondo è stato cacciato dai cappuccini; la terza ha dovuto aspettare l’età della pensione prima di dedicarsi ai bambini sfortunati… Senza parlare dell’interdetto che ha colpito la rispettabile iniziativa dei preti operai, gli esempi sono legione tanto la gerarchia cattolica manifesta, di primo acchito, la più totale sfiducia nei confronti di coloro che desiderano condividere la condizione degli esclusi. Bizzarro, vero?
Perché non è tanto la carità verso il prossimo, che viene richiesta ai cattolici, ma, prima di tutto e soprattutto, la fede (che troppo spesso non è che una credenza, fatta di formule trite e ritrite, ripetute pappagallescamente), la fede e l’attaccamento filiale alla Chiesa attraverso la sua gerarchia nella più perfetta obbedienza. Coloro che, contro tutto, riescono a condividere la vita dei poveri saranno canonizzati dopo la morte. Quelli che falliscono saranno esclusi e sconfessati fino al ridicolo. Ma la sorte non è ridicola in tutti e due i casi?


Yeshouah, Tu sai quanto ho sofferto per l’incomprensione dei miei fratelli di religione. Desiderando con tutta l’anima di vivere il tuo vangelo e non potendo condividere con loro questa ambizione, ho subito una crisi di fede terribile ma senza mai dubitare della mia vocazione. Quando ero educatore nella baraccopoli c’era solo un frate domenicano al quale confidavo i miei interrogativi. Fino a quando una sera, all’improvviso, come una constatazione disperata, mi sono messo a gridare davanti a lui: “Questo dio al quale credo fin dalla mia nascita, ebbene.. non esiste”.
Crisi di fede? Il mattino dopo mi sono svegliato con l’itterizia.

Per vent’anni mi sono buttato alla ricerca di questo dio perduto. Con tutti i mezzi possibili e immaginabili. Preghiere e suppliche forsennate, penitenze, digiuni prolungati, letture edificanti, pellegrinaggi… Osavo sperare che Dio non era definitivamente muto. Un giorno, la sua grazia avrebbe avuto ragione della mia congenita indocilità. Coltivavo il segreto desiderio di rientrare gentilmente nei ranghi dei buoni e ferventi cattolici. Ma, dall’altra parte, la mia coscienza mi assicurava che, quantunque ribelle, i miei dubbi non erano del tutto ridicoli.
Ho avuto la chance di non sbandare come quei giovani credenti che, di fronte all’esempio dei cristiani e dei preti, si sono dichiarati frettolosamente agnostici o  atei.

In strada, mendicando…

Maggio 1984. Senza un soldo in tasca, mendicando e passando la notte all’addiaccio, mi lancio in una nuova avventura: visitare i miei fratelli cappuccini con una passeggiata di 3000 chilometri attraverso la Francia. Coltivando sempre, in fondo all’anima, la segreta speranza di ritrovare il vero Dio, in grado di animare una vera vita. In verità, la mia avventura non è troppo penosa. Dopo qualche giorno di marcia, ho la certezza di trovare, in uno dei nostri conventi, un’accoglienza simpatica, una mensa imbandita, un letto confortevole.
Un bel mattino, camminando senza pensieri, tra Amboise et Blois, in mezzo alla strada, all’improvviso, mi scontro con un muro. Una certezza: Dio è al centro di tutto, ma un Dio agli antipodi di quello che adorano gli uomini. Avverto che le mie radici affondano nella terra. Eppure ho la sensazione d’una libertà completa. Sono libero di fare ciò che voglio della mia vita. Responsabilità spaventosa. E Dio è il “Tutt’altro”. Inutile cercarlo da qualche parte nel cielo o aspettarsi ciò che ne è di Lui. Ma, allo steso tempo, una pace luminosa. Dio è qui, in basso, Presenza la più materiale, la più inattesa, la più ripugnante: i poveri, di cui faccio parte, sono la Presenza privilegiata del “Tutt’Altro” perfettamente inaccessibile. Tocca a me raggiungerlo per questo cammino.

Nello stesso istante ho la sensazione d’essere diventato Tuo prete, Yeshouah, prete di Gesù Cristo. Sui due piedi decido di riprendere il servizio e parto per il Guatemala a fare il prete presso degli indigeni perseguitati.

Ed eccomi qui, in una diocesi orfana del suo clero. Quattro anni prima, preti, religiosi, vescovo in testa, hanno disertato il territorio. L’esercito guatemalteco  massacrava il popolo indigeno. 100.000 uccisi, centinaia di villaggi rasi al suolo. Accusati di favorire il comunismo, i preti erano minacciati di morte. Dopo l’uccisione di diversi di loro, i superstiti hanno preferito abbandonare il gregge. E’ duro, duro testimoniare l’Amore-Perdono.

Io non ho nessuna voglia di giocare al curato di campagna. Ma, viste le circostanze, benché inesperto, devo affrontare, mio malgrado, questo ruolo. Preso come in un sandwich tra la mia aspirazione personale e le obbligazioni parrocchiali, faccio le due cose a metà. A capo di sette anni il nuovo vescovo mi mette alla porta. Decisamente non ho la vocazione del curato. Il mio posto non è nel coro d’una cattedrale o negli stalli di un monastero. Allora, perché no in prigione?

In prigione

Una prigione tutta speciale quella di Cochabamba, Bolivia. Un dormitorio di 900 metri quadrati per 700 persone. Onesti malfattori, modesti spacciatori o ladri, uomini politici, ricchi borghesi, un colonnello e un medico. Tutti a nudo. Le maschere sono cadute. La società li ha giudicati per quello che sembravano: uno spregevole rifiuto, indegno dell’umanità.
Non sei sempre tu, crocifisso? Sulla croce, tra due banditi, tu non cercavi di dissociarti dai viziati, impostori, spergiuri, criminali, egoisti, tutti gli antisociali, che sono il piatto speciale dei media. Infatti, bisognava vedere come i giornali che riportavano il processo di uno dei nostri, circolava di nascosto per pascersi del suo calvario.
Fare la coda ai quattro gabinetti per 700 inquilini, aspettare l’acqua di notte per fare bucato, lucidare i mobili sotto il sole o lavare le docce per guadagnare una scodella di zuppa con il privilegio di occupare una cella-sauna lunga un metro e settanta, alta un metro, mentre i più miseri sono condannati a vivere all’aperto, nel cortile, in tutte le stagioni …
Non era il caso di giustificarli, scusarli o farli affondare un po’ di più, ma soltanto di capire come si erano sviluppate le loro personalità antisociali. Violenti, insolenti, cinici, sprezzanti o annientati, si burlavano della loro vita come di quella degli altri.
Eppure i detenuti della Bolivia sanno per certo che i maggiori criminali – i più furbi – arricchiti e corrotti dalla droga, occupano i posti migliori nel governo, commercio, industria, finanza, esercito. Sanno che avrebbero dovuto essere più capaci, più scaltri, più fortunati per riuscire in ciò, cui tende l’insieme della società, la quale, strutturata attorno ai soldi, il benessere ed il potere, non può che calpestare i poveri, i deboli, i perdenti.
Di fatto è la contingenza, che ha spinto questi bocciati a fare ciò per cui sono in prigione. Come rimproverarli, quando noi, nelle stesse circostanze, avremmo fatto lo stesso? Certo, la società deve difendersi. Deve scartare individui pericolosi. Ma, attenzione: non per farne dei bruti, drogati a morte in cloache infami, prigioni disumanizzate. Perché se devono passare per una condanna, un castigo, ciò non è solo per riguardo della società, ma innanzitutto per loro stessi. Ognuno di noi ha assolutamente bisogno, un giorno o l’altro, di operare questa “conversione” dei valori e delle priorità. Il più presto possibile sarebbe meglio. Ecco perché una autentica civiltà non potrà essere degna di questo nome che nel giorno in cui, con i suoi delinquenti, condividerà la loro pena!
Utopia di un sognatore delirante?
Innanzitutto, qui ho trovato alcuni prigionieri capaci di rientrare in se stessi, rendendosi conto dei loro sbagli, sforzandosi di vivere una vita più dignitosa. Ma queste prigioni “ideali” esistevano già presso gli amerindi. I detenuti uscivano per lavorare, sorvegliati dai membri della comunità, erano in contatto con la loro famiglia prima di rientrare in cella a meditare… o dormire.

Ho passato un anno intero, giorno e notte, ad ascoltare persone avide di confidarsi, lamentarsi. Raccontano la loro vita, avventure, gioie, amori, pene, dichiarando la loro innocenza o confessando umilmente i loro delitti, la vendetta che li ossessiona, ripugnando il perdono, così difficile da far sbocciare, oppure esprimendo il rammarico più sconvolgente. I più umili sono i più lucidi. Fin dall’infanzia sanno di essere disprezzati, sono consapevoli della loro vita mediocre. La carcerazione non è una sorpresa per loro. Mentre alla gente rispettabile ripugna ammettere le proprie debolezze, questi le riconoscono in tutta semplicità.

Come mi sono sentito miserabile davanti a questi detenuti… impotente, incapace di mettermi nei loro panni, io che avevo sempre la possibilità di chiudere la mia cella, per quanto minuscola, lontanissimo dall’insondabile mistero della loro vita sciupata, sprecata, distrutta. Assurdo.

Sì, Yeshouah, in quei momenti paradossalmente benedetti, sono entrato pienamente nei Tuoi sentimenti. Nella tua compassione per le folle senza pastore, abbandonate alla deriva e il tuo folle desiderio di sovvertire, sommergere la loro vita con un amore infinito. Allora, come avrei voluto appartenere ad una Chiesa entusiasta, pronta a sacrificare i suoi principi ed i suoi dogmi, la sua morale, le sue basiliche ed i suoi libri di catechismo, per fare una scappatella: abbandonare i muri dei monasteri per sposare la vita dei suoi fratelli, che sono, in mezzo a noi, la Tua presenza reale, Yeshouah.

Ma io sono solo…

Non mi faccio illusioni. Non sono mai riuscito a condividere fino in fondo l’angoscia, la sofferenza di un autentico senza fissa dimora, un disoccupato, un alienato, un detenuto, un essere privo d’amore e sicurezza. Lo riconosco: in mezzo a questa “fauna” giudicata e condannata dal pregiudizio di essere “irrecuperabile”, sono scoppiato. Come tu sognavi, senza dubbio, che sarebbero scoppiati, come Te, i tuoi discepoli. Eppure, poter sperimentare questa gioia così semplice di vivere giorno per giorno in una insicurezza, che non può non innescare avventure ed incontri…
Perché, allora, noi che abbiamo il desiderio di seguirTi, perché quelli che fanno il voto solenne di vivere poveri, hanno così paura del Tuo popolo e lo sfuggono come la peste? La ragione non è troppo semplice? Il tuo vangelo è impraticabile, invivibile! Quale curato oserà predicare una tale evidenza? Quale teologo elaborerà una dottrina su questo tema? Quale catechismo abborderà mai questo capitolo? Prova ad immaginare che ci si permetta questa libertà… Si spacca la baracca, si manda all’aria la barca di S. Pietro.
Allora, in un consenso ammirevole, tutti fanno come se il tuo messaggio fosse di una applicazione superficiale. Come se bastasse un pizzico di buona volontà.
Ricordo le ore chiuso in confessionale, la vigilia delle feste, ad ascoltare dei peccatucci stereotipati, poco originali, sussurrati alle mie orecchie. Ecco in che cosa sbocciava il mio sacerdozio, ecco il fuoco che io accendevo nel cuore dei tuoi fedeli…!
Ecco perché, oggi, Tu puoi capire la mia conclusione: non si rischia di diventare insignificanti con due preghierine ed una elemosina?
Il tuo vangelo è impraticabile, invivibile!

C’è stato un tempo nel quale ho tentato di prenderti alla lettera a proposito del “detestabile denaro”, una delle cause profonde del fallimento della tua Chiesa. Quando mi trovavo a Chicago in un ostello per barboni. Ogni giorno affittavo le mie braccia ad una agenzia di lavoro. Tutte le domeniche sere mi sbarazzavo dei dollari superflui, gettandoli dalla finestra. In quel quartiere ero sicuro che andavano a finire in tasche bisognose.
Ma io Ti ho tradito, Yesh. Oggi ho un conto in banca e non ne sono fiero. Come evitarlo? Sappi che per far parte degli economicamente deboli e per avere la casa popolare, è raccomandabile avere un RID. E poi, bisogna riconoscerlo, la Master Card è un’invenzione geniale. Ci fa sentire simili ai vincitori del totocalcio!
Ecco perché ho cominciato a persuadermi, che il tuo vangelo è impraticabile, invivibile! Ma, tuttavia, è la prima cosa da praticare, da vivere. Impossibile ma indispensabile. L’impossibile necessario. Questa è la mia fede. Chi potrà aiutarmi ad uscire da questo paradosso… o ad assumerlo pienamente?

Giovane ricco rimasto incastrato nella cruna di un ago, ho spesso tentato di intavolare l’argomento con i miei colleghi. Ma non hanno mai voluto commentare, discutere, criticare ciò che avevo scritto o che confidavo loro. Perché nella Chiesa non esiste il dialogo. Perché è inutile scambiarci le idee per sentire battere il cuore in tutta libertà. Non abbiamo niente da dirci, perché tu ci hai regalato il bel “pacco dono” delle verità da credere. Inutile discuterne se non per ripetere ciò che si insegna ai fedeli da duemila anni. Come se non fosse cambiato niente. Come se fin dalla partenza tutto fosse chiaro, senza l’ombra di una “riparazione” canonica!
Si capisce, quindi, perché la cristianità ha partorito il comunismo, questa dinamica cristiana diventata folle. Bastava eliminare l’idolo “dio” e conservare l’istituzione e le sue pratiche…

Il deposito della fede o la buona novella?

“Conservare il deposito della fede, questa è la missione che il Signore ha affidato alla sua Chiesa…”: sono le prime parole del Santo Padre nel presentare il nuovo Catechismo. Eccola qui tutta l’ambiguità della Chiesa cattolica, nero su bianco. Avendo la missione di proporre la buona novella del Signore, essa preferisce imporre il “suo deposito”. E, dopo duemila anni, siamo seduti trionfalmente su di esso, custodendolo gelosamente come un tesoro e abbaiando se a qualcuno viene voglia di toccarlo. Perché si rischierebbe troppo nel rivelare che il Cristo-Re è nudo… Ed è la più bella evidenza, che ci hai predicato con il tuo sangue, Yesh crocifisso. Come se la nudità non fosse la terribile condizione per l’accesso al Regno. Ma ecco esattamente ciò che si vuole occultare a se stessi, il più a lungo possibile, anche meditando tutta la vita sul tuo esempio.
E siccome io ho voluto mettere il naso fuori dalle nostre frontiere, a trent’anni ho cominciato a rendermi conto, che non eravamo abbastanza equipaggiati per rispondere all’immensa sofferenza dell’umanità. E siccome, maldestro, ho iniziato a manifestare i miei interrogativi, i miei fratelli e superiori hanno cominciato a diffidare di un soggetto come me. Senza osare di prendere l’argomento di petto, si sono ben guardati dal propormi un lavoro. Neppure un posto in convento, indovinando che i muri mi sarebbero stati troppo stretti.
Tuttavia gli sono grato di avermi sempre considerato uno dei loro, benché, capro ribelle, la mia condotta non sia esemplare. Come se, al di là della mia detestabile persona, li obbligassi a guardare con interesse ed amore coloro che mi assomigliano. Forse, nel profondo di se stessi, avvertono che, nella mia ingenua e cocciuta arroganza, non ho del tutto torto. Da qui la loro indulgenza? Forse, come me, si sentono interiormente incastrati. Ma, trincerati dietro il tuo “Deposito”, possono, divinamente rassicurati, soffocare i loro interrogativi. Mentre il “Vatitanic” sta per affondare, essi sono ancora là a pensare che la Vita eterna, dall’altra parte, sistemerà tante cose… aspettando Godot e il suo divino salvagente!?

Da parte mia ho una certezza: il buon dio cattolico non ha (quasi) niente a che vedere con il “Tutto-Niente, Colui che è”. Perché gli indigeni m’hanno fatto capire che la buona novella, che i miei fratelli americani vogliono annunciargli con grandi risorse e con il carrello da golf, loro la conoscevano già da millenni, considerandomi spontaneamente un loro fratello.
Sono eretico?
Yesh-del-mio-cuore, voglio essere un tuo prete in compagnia di tutti i poveri tapini del mondo. Con loro voglio vivere il tuo vangelo impraticabile, invivibile. Metterlo in pratica solo un po’, anche se fosse il minimo, ma sul serio. Tu non esisti? Che importa! Ma il mio pezzetto d’amore per i poveri, esso esiste. Esiste attraverso tutti gli incontri che ho fatto. Dei delinquenti m’hanno fatto vedere, con un sorriso, una strizzatina, che il nostro mondo assurdo, in fin dei conti, potrebbe essere il più bel angolo del mondo. E’ tutto ciò che conta. Perché con questo non mi trovo nella credenza o nella fede, ma nel reale. Il reale dell’Amore.