PDF Imprimir
There are no translations available.

Ci sarà mai una religione che metta il povero al primo posto?
Cosa c’è dietro la facciata o maschera del povero?
E chissà quando si tratta di interi popoli “impoveriti”?

Benoit Charlemagne è alla ricerca di una risposta dall’età di otto anni, quando…“… il maestro mi incarica di portare i compiti ad un compagno ammalato. Abita in fondo al paese. Per qualche secondo rimango sulla soglia, sconcertato.  In quel preciso istante il mio universo crolla: colui che avevo scelto per il fratello, che ho sempre sognato (avevo 5 sorelle), abita in un tugurio. Io ho una casa con un bel giardino e non riesco immaginare, che il mio miglior amico possa essere un poveraccio. Lo ripudio, lo prendo in giro, comincio ad odiarlo. Mi fa paura. Ho il terrore di assomigliare a lui. Al catechismo ho capito che Caino non è un buon modello. Devo vedere tutti gli uomini come dei fratelli e imparare ad amare i poveri. Facile a dirsi, difficile a farsi, perché non sono affatto “amabili”. Credo che solo i preti siano capaci di questo eroismo. Dunque, mi faccio prete.

A 20 anni leggo la vita di s. Francesco: una rivelazione. Mi faccio francescano.

Vengo spedito a Calais come cappellano. Una città distrutta dalla guerra. Baracche e prefabbricati. E noi preti abbiamo un gran da fare per le “cose del cielo”: messe, prediche, confessioni, battesimi. E il catechismo? 900 bambini da preparare alla prima comunione. Ogni sera visito una famiglia e scopro un universo, che ignoravo completamente.  I loro argomenti – salario, sindacato, rivendicazioni, malattia – non trovano in me alcuna partecipazione. Guardo, ascolto. La domenica dovrei predicare il vangelo. Ma che ne so io delle loro difficoltà, io che, grazie al vivere così?

Sono il rappresentante di Dio, il funzionario d’una religione potente, ricca e rispettata. Ho uno stato sociale. Sono un personaggio, ma anche una maschera, uno stampo. Dovrò dire quello che dice la Chiesa, pensare come pensa la Chiesa,  obbedire ai suoi ordini. Ma io non so che farmene di titoli, privilegi, insegne. Ciò che voglio è solo essere prete, prete di Gesù Cristo, non un curato.

E’ mio dovere indagare perché il figlio dei Foratier non frequenta il catechismo. La madre appena uscita dall’ospedale, il padre disoccupato, 4 figli. Da anni nessun prete ha messo piede nel loro tugurio. Si sentono onorati per essermi disturbato per loro e insistono per trattenermi a cena. Una cena da poveracci… Di ritorno in convento mi rimetto a tavola. La mia refezione mi voto/privilegio della povertà, per anni non ho mai visto il denaro? La vita da cappellano non mi soddisfa. Mi sono fatto prete per aspetta, al caldo, nel forno.
Poi vado dal superiore: “Basta! Mai più metterò piede nei tuguri dei poveri. Non abbiamo niente da fare presso di loro, se non mangiare il loro pane, tranquillizzando la coscienza con i loro segni di stima e di fiducia. I poveri non sanno che farsene delle nostre visite, della nostra verità, se non siamo capaci di portare loro una speranza vera. La nostra vita è un insulto vivente alla miseria dell’uomo. Abbiamo la pretesa d’essere la Chiesa dei poveri, ma non siamo che i funzionari di una religione…”.

A che cosa serve la Chiesa, se non è nel cuore dell’ingiustizia, del disprezzo nel quale vivono i miserabili? Vale la pena essere cristiani, se non si fa corpo con  i poveri, ritenendolo come un insulto fatto a noi stessi quando un poveraccio è escluso, rigettato, ignorato?

Testo adattato liberamente da: Benoit Charlemagne: “Un chameau dans le trou d’une aiguille – Les aventures d’un capucin atravers le monde”, Fayard, 1980.